La vita che verrà

08 settembre 2021

Di Massimo Sideri

Nell’affascinante museo dell’aeronautica di Vigna di Valle, nei pressi del Lago di Bracciano, una fedele replica del Wright Flyer Type 4 – l’aereo che nel 1903 riuscì a sollevarsi per 59 secondi grazie a un motore di appena 16 cavalli – ammonisce inconsciamente sulle differenze tra volo nell’atmosfera e fuori dall’atmosfera: gli aerei sono nati fin dalle origini con uno scopo ben preciso, far volare l’essere umano. I missili no. In altri termini i fratelli Wright, affrontando e smentendo l’antico mito di Icaro, prendevano spunto dalla natura. La emulavano. La tecnologia degli aerei, ancora oggi, coopta le soluzioni sviluppate dal darwinismo negli uccelli, a partire dalle ali e dall’aerodinamica. Ma lo Spazio è un’altra sfida. Da quanto ne sappiamo nello Spazio non vive né sopravvive nulla, se non, per poco tempo, i tardigradi. Nessun animale può raggiungere il vuoto o vivere nel cosmo. La natura in questo caso non ci è stata di aiuto e, in tal senso, potremmo anche argomentare sul fatto che l’homo sapiens, raggiungendo lo Spazio, ha superato i limiti stessi dell’ecosistema terrestre.

La premessa è necessaria per comprendere qual è lo stato dell’arte della nuova corsa allo Spazio (lo Spaziocene), quella che dovrebbe portarci dall’esperienza “mordi e fuggi” del passato, e da quella intermedia e attuale della vita nella Stazione Spaziale Internazionale, alla fase di colonizzazione vera e propria con una permanenza dell’uomo e della donna in un ambiente ostile alla vita. Vale la pena ricordare che allo stato attuale la tecnologia ci permetterebbe già di raggiungere Marte sebbene con mille incognite. L’umanità è “già stata” su Marte. Con i robot. Può sembrare un gioco di parole ma sottolinearlo è fondamentale per capire che la sfida tecnologica non è il viaggio di andata. Semmai è quello di ritorno. Possiamo raggiungere il pianeta rosso sebbene la distanza minore da percorrere, anche con il favore del punto orbitale più vicino, sia cento volte quella tra la Terra e la Luna (400.000 chilometri versus 40 milioni circa). Qual è l’incognita allora? Ne esistono di due tipologie. La prima famiglia di problemi, la più scontata per certi versi, è quella tecnologica, legata all’origine stessa dei missili. Licenziamola subito.

Copertina The Martian, di Ridley Scott, 2015. Sopra Casa Albero, l’elemento bagno, Giuseppe Perugini, Raynaldo Perugini e Uga De Plaisant, 1968-71, Fregene. Foto di Stefano Perego

Non sono in molti a sapere che la prima testimonianza storica di un proto-missile ci riporta in quella che oggi è l’Italia, nella città di Tarentum, Taranto. La fonte è Aulus Gellius che nei suoi scritti cita un greco di nome Archytas vissuto 400 anni prima di Cristo. L’inventore intratteneva i cittadini della Magna Grecia con un piccione di legno che volava grazie a un principio di propulsione, la qual cosa lo rendeva tecnicamente più simile a un razzo che a un uccello, nonostante la forma. Il razzo, com’è più noto, venne poi sviluppato dai cinesi come fuoco di artificio – una canna di bambù con una mistura esplosiva – e poi come arma – la battaglia di Kai-Keng del 1232 per cacciare i mongoli invasori (www.grc.nasa.gov). In sostanza per un missile è più facile partire che atterrare. La soluzione geniale sviluppata dalla NASA per scendere sulla Luna nel 1969 con un “ascensore” (modulo lunare Eagle), ma forse ancor di più gli insuccessi di SpaceX di far riatterrare sempre in piedi i suoi missili, sono i migliori esempi per capirne la complessità. Non ultimo dobbiamo considerare il propellente come sfida tecnologica: portarlo su Marte sarebbe troppo costoso. Non portarlo significherebbe restare prigionieri come accadde al comandante Shackleton e all’equipaggio della Endurance al Polo Sud durante la prima guerra mondiale, senza poter compiere il miracolo di tornare con una scialuppa alla civiltà.

La soluzione che stiamo studiando è la produzione in loco, sfruttando almeno in parte il fatto che l’atmosfera marziana abbondi di CO2 (metano e ossigeno possono essere prodotti con una semplice elettrolisi e per ora un esperimento con Perseverance è riuscita a isolare il secondo). Ma senza voler minimizzare la portata di questa famiglia di problematiche scientifiche e tecnologiche, la grande sfida dello Spaziocene è legata al contenuto delle navicelle: donne e uomini. L’umanità ha bisogno di cibo e acqua per sopravvivere, ma non solo. Una missione di colonizzazione si porta dietro anche tutte le tematiche psicologiche e sociologiche della civiltà sulla Terra. Non sembra esagerato dire che nello Spazio dovremmo trasferire l’intera gerarchia delle necessità umane della famosa Piramide di Maslow, partendo da quelli della base (fisiologici) fino a quelli più complessi.

L’esperienza ricca e avvincente delle missioni sulla ISS è di aiuto solo in parte: la Stazione Spaziale è, rispetto a Marte, a “due passi” dalla Terra. Qualsiasi problematica su Marte (dai 40 milioni di chilometri circa la distanza aumenta fino a 60 milioni lungo le fasi orbitali) è destinata a rimanere senza possibilità di aiuto. Un qualunque problema di salute o anche di semplice mano d’opera è destinato su Marte a rimanere insolvibile. La carenza di un semplice pezzo di ricambio può essere la distanza siderale tra il successo e un disastroso fallimento (in quanti ricordano che la stessa ripartenza del modulo lunare Eagle dalla superficie del nostro satellite è stata possibile grazie all’utilizzo della penna spaziale Fisher che venne usata al posto di una levetta che si era rotta? La missione Apollo 11 è stata a un millimetro dal fallimento, come abbiamo scoperto solo con le più recenti testimonianze). Ecco perché il piano B, anzi i piani B: una prima fase di colonizzazione della Luna, con degli insediamenti umani già programmati per questo decennio (il Covid-19 ha inevitabilmente ritardato anche questi progetti), oltre alle esperienze che già stiamo sviluppando al Polo Sud. Come ha testimoniato Loredana Faraldi, la ricercatrice che ha passato tutta la pandemia insieme ai suoi colleghi nella base Concordia in Antartide, durante l’inverno glaciale nessun aereo poteva sperare di atterrare sul pack, rendendo impossibile qualunque missione di soccorso. Vivere a quelle latitudini è l’esperienza più vicina a quella di un astronauta.

Prospetto della Casa Albero, Giuseppe Perugini, disegno autografo, Archivio Studio Perugini

Tutte queste considerazioni ci permettono di intuire quanto le tematiche anche psicologiche della Piramide di Maslow siano di centrale importanza per pianificare la colonizzazione, commettendo gli errori qui sulla Terra per non commetterli quando saremo nello Spazio (Neil Armstrong). I bisogni fisiologici – non solo mangiare e bere ma anche respirare e dunque produrre ossigeno – sono la base su cui costruire l’intera progressione della Piramide, fino alle esigenze culturali che in un periodo di circa due anni (tanto sarebbe necessario per una missione su Marte considerando il tempo per ritornare alla giusta distanza operativa per pianificare un rientro) sarebbero importanti per permettere agli astronauti di cercare e trovare un equilibrio psicologico. Un libro, una comunicazione (ci vogliono circa venti minuti per comunicare tra Marte e la Terra) o anche una semplice doccia possono rappresentare il muro tra sentirsi ancora parte della civiltà o provare un pericoloso senso di estraniazione e abbandono da essa.

Come ammoniva il vecchio capitano reduce della prima guerra mondiale ricordato da Primo Levi in “Se questo è un uomo” nei lager bisognava farsi la doccia non perché si potesse sperare di lavarsi, ma perché il semplice rituale era di per sé un baluardo contro la perdita di dignità e di appartenenza all’umanità. Da questo punto di vista la frontiera della Piramide di Maslow nello Spazio è ben rappresentata dai lavori di Valentina Sumini (Space architect, MIT e PoliMi) esposti anche alla Biennale di Venezia, con la creazione di spazi di “privacy” personalizzabili per difendere l’equilibrio psicologico e combattere il senso di isolamento di una missione forse paragonabile per rischi solo alle navigazioni atlantiche quattrocentesche, senza il supporto di mappe, di Cristoforo Colombo. «Siamo pionieri, navigatori su una zattera» ricorda il protagonista di “Interstellar” al suo collega di viaggio scienziato. La cura che offre Cooper, non a caso, è una semplice registrazione di un temporale. L’homo sapiens deve tornare alla foresta, per trovare il coraggio di abbandonarla nuovamente. Non perché è facile farlo, ma perché è difficile (JFK).