Le parole per un’iperconnessione equilibrata

30 giugno 2022

Di Serena Ricci

La sociolinguista Vera Gheno sostiene che i social da un lato sono utili per permetterci di comprendere l’evoluzione della nostra lingua e dall’altro ci consentono di conoscere la rete rendendola più accattivante. Tuttavia nel web la lingua italiana ha cambiato forma comportando un maggiore utilizzo di acronimi, di abbreviazioni, di parole anglofone, che consentono un’omologazione del linguaggio anche mediante il riemergere di espressioni dialettali che, a prescindere dalla regione che rappresentano, vengono utilizzate come chiavi di comunicazione e di riconoscimento tra gli utenti della rete (daje è un intercalare impiegato anche al di fuori di Roma). 
Mancano tuttavia alcuni elementi tipici della nostra comunicazione quali il gesticolare, il linguaggio del corpo, la prossemica (la disciplina semiologica che studia i gesti, il comportamento, lo spazio e le distanze all'interno di una comunicazione) ai quali si supplisce ricorrendo alla punteggiatura che purtroppo non rende come le espressioni del viso o i gesti.  L’utilizzo diffuso degli strumenti digitali ha inoltre comportato l’iperconnessione e la conseguente web reputation, fenomeni che coinvolgono principalmente la Generazione Z o Digitarians che difficilmente riescono a trascorrere un tempo medio-lungo privandosi del telefono cellulare o che trovano noiosa una lezione dal vivo da apprendere su libri cartacei. 


Nel saggio di Vera Gheno e Bruno Mastroianni "Tienilo acceso: posta, commenta, condividi senza spegnere il cervello” del 2018, si affronta il problema della difficoltà di comunicare senza dispositivi elettronici e dell’alienazione causata dal phubbing (trascurare il proprio interlocutore reale per guardare il telefono cellulare) che, soprattutto tra gli adolescenti, può provocare forme di depressione. Infatti, nonostante si ricorra agli strumenti digitali per sentirsi meno soli, è la stessa relazione virtuale a precludere rapporti reali. Siamo spesso dipendenti dall’eccesso di condivisione dei nostri momenti della giornata tramite i social e dall’approvazione altrui espressa con una quantità di “like” che deve essere necessariamente consistente per dare un senso alle condivisioni stesse. Entrambi gli autori evidenziano dunque come non sia necessario condividere tutto e non occorra condividere troppo proprio per evitare che quanto diffuso nella rete sia a disposizione di chiunque. Senza dubbio il periodo pandemico e il conseguente lock-down hanno comportato un’assuefazione all’iperconnessione continua pur sentendo noi stessi la mancanza di uno sguardo reale o di una carezza o anche di una risata non riprodotta tramite un pc. Una via d’uscita, suggerita nel saggio del 2018, è imparare a padroneggiare i social, senza farci manipolare al fine di gestire la nostra “identità aumentata”. E’ quindi fondamentale tornare ad esercitarsi al fine di utilzzare le parole in maniera più prudente visto che nella rete l’effetto delle stesse è amplificato: ”Le parole sono il nostro biglietto da visita, spesso danno la prima impressione di ciò che siamo o vogliamo apparire. (…) Se ci rifacciamo lo stesso selfie con dieci pose diverse, modificando di un millimetro per volta l’inclinazione del viso rispetto al torace, finché la luce (divina?) non riesce a far emergere il nostro profilo migliore(…) perché non dovremmo fare altrettanto con le parole?”.