LIBERTÀ, FAKE NEWS E VERITÀ

Di Oriano Giovanelli

Quando le idee sono chiare è facile anche azzeccare i titoli.

30 giugno 2021

Finché ci sono fake news c’è speranza è il titolo del libro del professore Carlo Magnani, ricercatore di Diritto pubblico e docente di Diritto dell’informazione presso il Dipartimento di Scienza della comunicazione dell’Università di Urbino per Rubettino-Università. E ancora più efficace e chiaro il titolo dell’ultimo capitolo del libro che a sintesi di un ragionamento in punta di diritto e di considerazioni socio politiche conclude: meglio le fake news che il Ministero della Verità, con la V bella grande.

E’ un libro che consiglio vivamente non solo agli studenti, ai docenti, agli operatori dei media, a chi fa politica, ma, per la sua chiarezza e accessibilità, ad ogni lettore che voglia mantenere aperto il cervello ad un approccio critico sui grandi cambiamenti che investono il rapporto fra economia e politica, fra comunicazione e politica, fra tecnologia vita sociale e conoscenza. Insomma i cambiamenti che mettono in questione la libertà e la democrazia.

E’ un libro che non indulge, ovviamente a polemiche ma mette spalle al muro l’insostenibile pesantezza della pretesa di affermare la verità attraverso il diritto. Questo nulla toglie alla ricerca della verità come speculazione filosofica, come contrasto fra pensieri e ideologie e soprattutto come ricerca scientifica. Ma la verità non ha nulla a che vedere con la legge. Anzi il libro ci accompagna, attraverso il pensiero di grandi pensatori liberali, nel lungo percorso di emancipazione del diritto dalla verità che trasformava il credo religioso in legge e soprattutto il dominio e il privilegio delle monarchie assolute e delle aristocrazie in prevaricazione in nome della legge e della verità.

Carlo Magnani

In questa pandemia abbiamo anche misurato come addirittura la verità scientifica sia problematica quando la si deve tradurre in norme cogenti. Problematica per le palesi differenze di vedute fra gli scienziati coinvolti, per verità scientifiche buone in un momento di massima emergenza e non più buone quando questa scende d’intensità, per le palesi interferenze fra politica, interessi geostrategici e autorità chiamate alla validazione di vaccini e farmaci.

Ovviamente il dibattito sulla libertà di espressione e la campagna contro le fake news non ha nulla a che vedere con l’importantissimo dibattito, non privo di rischi per la libertà individuale, sulla cyber security. E nemmeno ha a che fare con le campagne contro l’odio in rete, questione comunque non priva di opinabilità nella definizione del limite oltre il quale una affermazione diventa incitazione all’ odio.

Ha invece molto a che fare con la reazione che l’establishment sempre più scompostamente manifesta a fronte di eventi maturati all’interno della dialettica democratica. L’autore fa riferimento a tre di questi eventi: il referendum sulla Brexit, l’elezione di Trump, la sconfitta dei sostenitori del progetto di riforma costituzionale portato al voto degli elettori italiani nel 2016.

Il gioco politico sembra sfuggire ad una regia che i soggetti della democrazia rappresentativa sapevano orientare e la disintermediazione prodotta dai social media sembra produrre risultati pericolosi e incontrollabili. Ma i protagonisti di questo allarme invece di interrogarsi su come ridare legittimazione e centralità alla politica e a come recuperare un ruolo della politica verso l’economia (il divorzio fra le due sfere frutto della deriva neoliberista e della globalizzazione è la fonte del vero svuotamento della democrazia rappresentativa), si abbandonano a politiche paternalistiche ispirate al pessimismo.

Sono tre le forme di pessimismo agite da chi teme di fare i conti davvero con il cambiamento: il pessimismo democratico, il pessimismo informativo, il pessimismo tecnologico.

Ma se il cittadino è così inadeguato a definire una sua idea di democrazia e praticarla, se è smarrito nel mare magnum della iper informazione, se è del tutto impreparato a gestire la potenza della tecnologia, tanto vale chiedere aiuto a google, twitter e facebook per filtrare e censurare le opinioni in rete come se queste potenze economiche potessero garantire la verità.

E se il cittadino è così incapace e vulnerabile di fronte alle notizie diffuse durante le campagne elettorali sui social media, perché mantenere il suffragio universale?

L’autore dimostra una ragionata fiducia nella capacità della forma democratica di assorbire e digerire queste novità epocali solo se non verranno stravolti i principi costituzionali e se non si cederà alla tendenza all’arrocco di questo establishment, il quale del resto dimostra una sua certa resilienza se anche gli apriscatole diventano scatole. Chapeau!