Sono le 15.15 del 20 maggio 1973. Dagli altoparlanti la voce acuta dello speaker ordina: “Spegnere i motori!” ed elenca uno a uno i 29 piloti di 16 nazioni schierati al via della 250. Poi l’annuncio che invade l’autodromo di Monza: “Trentaaa secondiii!”. E’ una assolata giornata di primavera. Piena di vita, di colori, di odori. A nord, sullo sfondo, le cime della Grigna e del Resegone bucano il manto celeste, maestose, come fatte apposta per vegliare sul Tempio della Velocità.
Sul grande parco, immerso nel verde, cala il silenzio. Le grida di festa, i cori, gli sfottò dei 100 mila presenti sulle tribune e sui terrapieni dietro le reti del maestoso autodromo monzese, svaniscono. La pista pare una cornice senza più quadro. I motori sibilanti dei bolidi allineati per la partenza della classe 250 tacciono. Le lingue di fumo bianco dei bicilindrici 2 tempi sono evaporate lasciando nell’aria l’odore acuto dell’olio di ricino: per i fan un inebriante e miracoloso incenso, simbolo della sacralità del motociclismo. I corridori, allineati in quattro file da cinque e in tre file da quattro, scendono all’unisono dalla sella delle loro moto aprendo i rubinetti della benzina e infilando sulla leva del cambio la prima marcia. La mano sinistra è sulla leva della frizione. Le dita della mano destra premono sulla leva del freno anteriore per caricare la moto e avere più spinta allo start, con il polso sull’acceleratore. Gli occhi dei piloti, spiritati, prima fissano il vuoto poi la bandiera a scacchi che fra pochi attimi il direttore di gara abbasserà scatenando l’inferno. In quei 30 secondi scanditi prima del “Via!” dal battito del cuore di ogni corridore la domanda è sempre la stessa: perché? Perché si corre avendo, tutti, piena coscienza che il motociclismo è sempre stato è e sarà sport pericoloso? Il barone Pierre de Coubertin disse: “L’importante non è vincere, ma partecipare”. L’interpretazione corretta della famosa frase del fondatore dei Giochi Olimpici moderni è: “L’importante è partecipare perché solo partecipando avrai la possibilità di vincere”. Ciò vale anche per il pilota ultimo nell’allineamento della partenza che, senza questa convinzione di poter avanzare guadagnando posizioni giro dopo giro, neppure si presenterebbe allo start. Così farebbero tutti gli altri e forse sullo schieramento rimarrebbero solo i piloti della prima fila, o addirittura solamente il pilota titolare del miglior tempo. La corsa sarebbe cancellata. Chi non partecipa non ha nessuna chances. Vale anche per la gente comune che sta sulle tribune della propria vita. Così lo spettatore si immedesima nel “suo” campione. In questo caso nel centauro che sfida in pista se stesso e gli altri, come se la corsa sul circuito rappresenti la corsa della vita di ognuno e di tutti. Cambiano i tempi, cambiano i protagonisti ma la domanda si ripete: perché si corre? Per rincorrere i propri sogni. Per rubare al tempo un decimo di secondo. Per farsi rapire dal brivido di un attimo che va oltre il contingente e può durare tutta un’esistenza. Enzo Ferrari diceva: “Siamo nati con un’ansia di superamento e l’ambizione ci porta a tentare di primeggiare. La rivalità anche crudele, è già agli inizi della vicenda umana. Caino e Abele. Dal primo contatto con gli altri emerge l’istinto del confronto, della emulazione, del superamento”. Le domande si moltiplicano. Le risposte non stanno nei giudizi moralistici morali che sconfinano nei moralismi. Le corse sono le corse. Si corre e basta. Forse anche per dare un senso alla sfida che ognuno sente dentro se stesso. Tagliare il traguardo è appagante, la vittoria inebria, l’applauso rapisce. Il pilota lega la sua vita al motore, alla moto, alla corsa: di qua la sfida e il successo, di là il rischio, con conseguenze anche drammatiche, addirittura tragiche.
Quando su un circuito, dopo il rombo dei motori e l’urlo della folla, di colpo come una cappa cala il silenzio, ecco, la tragedia si è consumata. Rumori, clamori, odori, colori scompaiono. In un baleno, quel luogo di festa si trasforma in luogo di dolore e in ognuno resta il vuoto dentro, la morte nel cuore e le lacrime agli occhi.
Passate da poco le 15:15 del 20 maggio 1973, nel tempio della velocità di Monza, settecento metri dopo la partenza della attesissima gara iridata delle 250, all’imbocco della “curva grande”, una spaventosa caduta con 14 piloti coinvolti fa precipitare il motociclismo nel dramma.
Renzo Pasolini (35 anni) e Jarno Saarinen (28 anni), due fra i piloti più forti
e più amati, cadono e sbattono sul guard-rail a forte velocità perdendo la vita. Va
ricordato che il motociclismo dei “Giorni del coraggio” di 50 anni fa si
caratterizzava, oltre che per lo show dal vivo con il pubblico a contatto diretto con i corridori più “veri” di oggi e in un ambiente di grande umanità, per il gran numero di cadute per lo più causate dal grippaggio dei motori, cadute che avevano anche conseguenze mortali a causa della pericolosità dei circuiti lambiti dalla lame dei guard-rail o, spesso, strade normalmente aperte al traffico, con buche, pozzanghere, cordoli, e della sicurezza inesistente. A quei tempi, i piloti correvano per passione, ovunque e comunque, nella convinzione che l’incidente sarebbe sempre toccato ad altri: i pochi che osavano protestare per dover correre in quelle condizioni ad alto rischio non erano ben visti da Case e Team e venivano richiamati dagli organizzatori e anche penalizzati dalla Federazione con multe e squalifiche.
A Monza, autodromo permanente che inebriava per le sue altissime velocità (proprio Pasolini nella precedente gara delle 350 di fine mattinata aveva stabilito il record di categoria sul giro in 1’42.500 a 201,754 Km/h di media) e incuteva timore per le lame in curva e la mancanza di vie di fuga, proprio alla vigilia di quel GP delle Nazioni del 20 maggio ’73, alcuni piloti avevano tentato – invano – di far mettere più balle di paglia e in modo diverso rispetto a quelle a “spina di pesce” di fronte al senso della corsa, nonché disporre di più gente di servizio, per i soccorsi. Inoltre si criticava l’asfalto della pista che, dopo i recenti lavori di manutenzione, presentava un pericoloso avvallamento proprio al curvone dove in gara avverrà l’incidente. Lo stesso Saarinen, aveva dichiarato la “estrema pericolosità del circuito, specie il curvone diabolico dove si entra saltando a una velocità folle”. Già. Dopo 50 anni, la scena si ripropone come allora, lasciando attoniti, nel suo drammatico e tragico evolversi. Silenzio assoluto. S’abbassa la bandiera a scacchi e un sibilo fuso in un boato, scuote l’aria. Il gruppone della 250 GP giunge compatto, a manetta, alla fine del rettifilo. Settecento metri di lancio con partenza da fermo spingono i bolidi a oltre 200 kmh all’ingresso del curvone. Il serpentone svirgola sul bordo di sinistra, poi vira sulla destra per tagliare la curva e risalire ancora a sinistra. Lo spettacolo è superbo. Il cuore degli appassionati impazzisce. La scena toglie il respiro. Poi un attimo lungo una vita. La grande orchestra si spegne. Immagini sfuocate senza più audio. Scene fuori dal tempo che si perdono in uno spazio senza confini. Sull’asfalto è una danza impazzita di ruote, pezzi di moto, tute nere e rosse striscianti e corpi che volano come birilli. Nel bosco e fin sulle tribune rimbombano stridori, tonfi, lamenti e grida di disperazione.
Il cielo si chiude. Sale un fumo cupo, denso, presagio di morte. Il fuoco delle balle di paglia corre lungo la lama del guard-rail assassino. La “signora in nero” incassa il suo credito e copre l’autodromo con il suo manto di lutto. A piedi, molti piloti, chi indenne chi zoppicante e sanguinante, tornano indietro, verso i box. Tutti piangono.
Tutti scuotono la testa. La tragedia si è consumata. Cosa era successo? E perché? Allo start s’invola Dieter Braun, seguito da Pasolini, Saarinen, Hideo Kanaya. In pieno curvone, l’Aermacchi-HD s’intraversa scaraventando il Paso nel
guard-rail dopo aver sfondato le balle di paglia. La bicilindrica varesina rimbalza in pista colpendo in pieno viso Saarinen, a sua volta investito da altri corridori in una ammucchiata infuocata dove Renzo e Jarno perderanno la vita, altri 14 piloti saranno feriti, altri miracolosamente illesi. Sembra davvero ieri. E sono invece passati 50 anni da quel 20 maggio 1973. Renzo Pasolini e Jarno Saarinen, “leggende” del motociclismo, restano vivi. Per sempre.