L’apertura del magmatico romanzo musiliano ‘L’uomo senza qualità’ ci mostra un insolito evento atmosferico catturato dalla tecnica.
E in quella irruzione del perturbante, viene segnalata la cangiante forma di un punto di svolta della società: è il senso, e il connesso peso, della crisi.
Parola terribile con cui le scienze sociali si sono a più riprese confrontate nel corso dei secoli, per analizzare e comprendere, fin dove possibile, i moti di faglia che squassano istituzioni e società civile.
Nel turbinare sempre più mulinante degli anni venti e trenta del XX secolo, subito dopo i fuochi della guerra su scala industriale che fu il primo conflitto mondiale, emerse la dolorosa consapevolezza di un gioco crudele e terribile ormai mutato: e quel segno, apocalittico squarcio longitudinale nel cielo, venne colto con risoluta consapevolezza da quegli intellettuali che pur nelle reciproche, spesso insanabili, differenze iniziarono a convergere nel cuore del ‘pensiero della crisi’.
Heidegger, Mann, Freud, i fratelli Junger, Ortega y Gasset, Spengler, si trovarono al cospetto della irruzione, da un lato, della tecnificazione dell’esistente, i cui esiti più evidenti si stagliavano ancora come ferite nella carne della storia, sui campi di morte della Marna o di Verdun o del Carso, e della contestuale irruzione delle masse sul palcoscenico della storia.
La crisi, nel suo più profondo senso semantico, proprio come nel romanzo di Musil, indica un perturbamento, uno spostamento dell’assetto verso una ridefinizione duratura: evento traumatico, certo, ma occasione e opportunità per introiettare nelle nuove dinamiche tutto ciò che prima era situato nel perimetro esterno e negli interstizi.
Lo comprese, anni prima, Santi Romano che nella sua celebre prolusione pisana indicò la crisi dello Stato come sommovimento di forze sociali che lottavano, quasi hegelianamente, per il loro riconoscimento e per il loro ingresso nel cuore della validazione della forma statale. Proprio per questo gli scienziati sociali sono sempre piuttosto benevoli quando si confrontano con le crisi, siano esse politiche, giuridiche, sociali o sanitarie: scorgono in esse la promessa profonda di una rinascita e di una rifondazione di cui, narcisisticamente, poter essere parte.
Non sempre però riescono, per tempo, a comprendere quando una crisi rischia di definire la porta di accesso del collasso, intendendo per tale la nullificazione di una civiltà.
Jared Diamond ha illustrato alcuni esempi empirici di civiltà che hanno in certa misura scelto la propria scomparsa, mediante un insieme di politiche sconsiderate: se la crisi travolge, anche in maniera violenta, una architettura istituzionale e sociale, per poi coagularsi attorno nuovi formanti, il collasso precipita l’intero tutto sociale in un vortice nero senza speranza di ridefinizione e senza soprattutto riuscire a far fronte alle minacce poste dal contingente.
Nel recente ‘Catastrofi’, Niall Ferguson passa a vaglio critico le teorie di Diamond rilevando come lo sviluppo sociale di uno Stato-nazione non possa essere ridotto alla categorizzazione della crisi quasi biologica di un individuo, approccio epistemologico caro invece a Diamond.
In effetti la attuale crisi pandemica, con la contestuale imposizione dell’accelerazione degli elementi tecnologici e la decostruzione della società civile nel suo rapporto con le dinamiche di politica rappresentativa, sospesa tra disintermediazione totale e re-intermediazione operata dalle piattaforme digitali, sembra delineare il quadro complesso di un autentico collasso, di una implosione entropica dei valori, delle strutture e della complessità sociale.
Ancora oggi sembra maggiormente conferente per spiegare alcune derive, la lezione che fu del pensiero della crisi originata nel sangue e nel fuoco delle garitte incendiate della prima guerra mondiale, e che la Arendt rammenta nel suo ‘Le origini del totalitarismo’: la erezione della esperienza bellica come unico campo oggettivo di valutazione dell’esistente.
Lo spettro inquietante del nichilismo, preludente la forma del collasso, la heideggeriana ‘necessità sconcertante’ del nulla, imposto da forme tecniche e dall’emersione di un nuovo, perturbante esistente, si va rendendo nichilismo pandemico.
E ciò che fu la prima guerra mondiale, ora rischia di essere l’esperienza pandemica. Unico criterio di giudizio, unico orizzonte da osservare, uno Stato sempre più invasivo, capillare, onnipotente, per dirla con von Mises, nel suo paternalismo, e pronto, crescendo senza freni, alla esplosione.