29.05.2020 Raffaele D'Anna

Oltre i confini della ricerca. Intervista al premio Nobel Didier Queloz

Se oggi sappiamo che almeno la metà delle stelle possiede un sistema planetario, lo dobbiamo al premio Nobel per la fisica 2019, Didier Queloz

Professore all’Università di Cambridge, Queloz ha ricevuto il prestigioso riconoscimento insieme a Michel Mayor, con il quale ha individuato 51 Pegasi b, il primo esopianeta orbitante intorno a una stella simile al Sole, appartenente alla costellazione di Pegaso. Fondamentale per la scoperta è stata la progettazione e la costruzione dello spettrografo ELODIE, avvenuta durante gli anni del dottorato.

Nel 1995 la prima osservazione del pianeta extrasolare: così è iniziato il viaggio alla ricerca di mondi simili alla Terra.

Potrebbe raccontarci chi è l’uomo che ha realizzato la scoperta del primo pianeta extrasolare?

Ripensando a tutta la mia carriera, posso dire di essere una combinazione di diversi profili: sono un costruttore perché amo costruire oggetti e sono un esploratore perché amo costruire strumenti che ci permettono di indagare l’ignoto. Questo tratto da esploratore mi porta ad annoiarmi una volta che l’obiettivo è stato raggiunto. Una volta che sono stati individuati sempre più pianeti extrasolari, quel campo di ricerca è diventato per me via via meno divertente. Certo, c’è ancora molto lavoro da fare in questo ambito specifico, ma si tratta in un certo senso di lavoro industriale. Io sono interessato a spingere più in avanti il confine della ricerca. Ancora oggi lavoro così: stiamo cercando di individuare un pianeta gemello alla Terra; credo di sapere come si possa fare, e sto tentando di arrivarci. Toccherà poi alla scienza dire se sarò in grado di trovarlo o meno, ma sto lavorando in questa direzione perché mi diverte e mi appassiona. Una volta che avremo trovato un paio di gemelli della Terra, probabilmente comincerò ad annoiarmi di nuovo, perché mi mancherà il fascino della scoperta.

Infine, mi appassiona giocare con i dati. È per me un vero piacere analizzare i dati grezzi, estrarne dei fatti, e riuscire a dare loro un senso. Riassumendo tutti questi aspetti, arriviamo alla persona che ha costruito lo spettrografo ELODIE: sono colui che costruisce lo strumento, che crea il software e che punta lo strumento sull’oggetto per analizzare i dati. Questo è il mio profilo e, in un certo senso, è quello che sono.

Tutti gli aspetti del suo profilo hanno contribuito alla costruzione di ELODIE, lo spettrografo che per primo ha permesso di rilevare un pianeta extrasolare, oggi noto come 51 Peg. Può dirci come è avvenuta la scoperta?

Il nostro programma di ricerca non è partito con l’obiettivo di trovare esopianeti. Io ero uno studente di dottorato e il mio relatore, Michel Mayor, era interessato a costruire uno spettrografo molto preciso per continuare la sua ricerca su degli oggetti substellari chiamati “nane brune”. Ero sostanzialmente responsabile della progettazione dello strumento. Lavorando a stretto contatto con gli ingegneri, e cercando di ottimizzare la progettazione, mi sono reso conto che era possibile spingere ELODIE in un regime che non era previsto all’inizio. Siamo stati fortunati perché l’osservatorio dell’Haute Provence, all’epoca, non aveva altri strumenti in costruzione, e il suo fantastico team di ingegneri si rese subito conto del potenziale di uno strumento che usava molte nuove tecnologie. Il design ottico era completamente nuovo. Siamo stati i primi a usare il cosiddetto “R4 grating” e le fibre ottiche in modo ottimale. Inoltre, senza la matematica e l’analisi dei dati, lo spettrografo non avrebbe potuto funzionare. Ho avuto fortuna anche qui, perché in quel momento arrivò sul mercato un nuovo tipo di computer che mi permise di avere la potenza di calcolo necessaria per il software da me progettato.

Tutti questi elementi insieme hanno reso ELODIE lo strumento migliore della sua epoca. Ora, dobbiamo immaginare una situazione in cui hai una nuova macchina: la avvii, la punti e – bing! – trovi subito un pianeta. Questo è quello che è successo. È stato assolutamente inaspettato. Inoltre, in quel momento il mio relatore era in anno sabbatico, e ho fatto le prime osservazioni da solo. Inizialmente, la mia reazione all’evidenza dei dati non è stata pensare che avevo rilevato un pianeta, ma che doveva esserci qualcosa di sbagliato nel software. Ovviamente, conoscevo bene il mio codice, ma ho dovuto analizzarlo per molto tempo prima di convincermi. Il periodo tra gennaio e luglio del 1995 è stato terribile, perché temevo che il mio dottorato potesse risultare un fallimento. Ho dovuto elaborare i dati e fare previsioni prima di poterle verificare di nuovo. Anche perché il pianeta trovato aveva caratteristiche impossibili per la teoria di formazione dell’epoca. A luglio, però, il pianeta era ancora lì, ogni osservazione coincideva con i miei calcoli, e credo che quello sia stato il momento in cui anche Michel si è convinto. Abbiamo deciso di scrivere il paper insieme, e questo è stato l’inizio della scoperta dei pianeti extrasolari. Durante la discussione della mia tesi dissi che probabilmente stavamo vedendo solo la punta dell’iceberg. Ed è venuto fuori che avevo ragione.

(In copertina) L’esopianeta HD 189733b transita vicino alla sua stella madre, rappresentazione artistica, 2007. (Sopra) L’esopianeta 51 Pegasi b, Martin Kornmesser, Nick Risinger, rappresentazione artistica, 2015

È molto interessante che lei abbia pensato fin dall’inizio che con 51 Peg avevate appena scalfito la punta dell’iceberg. Qual era il ragionamento alla base di questa convinzione?

Nella scienza accade spesso di trovare qualcosa che ci sembra straordinario, ma in realtà la ragione della straordinarietà risiede nello strumento costruito per trovarlo. Quando ciò accade, ci si rende conto di come quello che in principio sembrava un oggetto eccezionale sia in realtà estremamente comune. Tale ragionamento è valido non solo per la scienza. Ad esempio, la percezione che spesso abbiamo di essere unici nell’universo penso sia solo un’illusione. Credo ci siano molti altri pianeti come la Terra e che ci sia vita ovunque nell’universo. Non possiamo essere speciali. Crediamo di esserlo solo perché non sappiamo nulla.

Tornando ai pianeti extrasolari, avevo trovato 51 Peg in orbita intorno a una delle venti stelle di riferimento che dovevo usare per settare lo strumento. Se ero stato in grado di trovare un pianeta su venti stelle casuali significava che, una volta ottenuto lo strumento, trovare altri pianeti doveva essere abbastanza semplice. Ecco perché ho detto che probabilmente stavamo vedendo solo la punta dell’iceberg. Non posso credere all’argomento dello “straordinario”. Non è il mio modo di vedere il mondo.

Quella scoperta è stata l’origine di un campo di ricerca in astrofisica interamente nuovo. Qual è il confine della ricerca in questo momento? Quali sono le domande aperte più interessanti della scienza?

Ci sono numerosi ambiti di ricerca molto affascinanti e la tecnologia disponibile oggi è sorprendente. Se si guarda alle scienze della vita, il modo in cui sappiamo giocare con la materia vivente è semplicemente incredibile. Ed è ancora più sorprendente se si pensa che la genetica è una scienza che in soli cinquant’anni ha cambiato completamente il mondo. Venendo all’astronomia, uno degli elementi chiave della ricerca ruota attorno al nostro modo di percepire e di accedere all’universo. Ad esempio, il recente rilevamento delle onde gravitazionali è un risultato incredibile e, in termini di tecnologia, è ben oltre quello che faccio io. Mentre le mie ricerche non si spingono al di là della scala atomica, il team che ha lavorato a quella scoperta è stato in grado di vedere cose così piccole da essere difficilmente immaginabili: stiamo parlando di rilevazioni su scala subatomica. Questo è un risultato incredibile: noi abbiamo occhi e mani, possiamo vedere e toccare, ma la conoscenza che la nostra mente è stata capace di raggiungere va ben oltre le capacità del nostro corpo. E per arrivare a questi risultati abbiamo usato dei “trucchi”, come la matematica, che estendono la potenza del nostro cervello. Allo stesso tempo, ci sono ancora grandi incognite. L’astrofisica, ad esempio, ha mostrato che la maggior parte della massa dell’universo è sconosciuta: è ciò che chiamiamo “materia oscura”. Non abbiamo idea di cosa sia. Sappiamo che è molta, ma sappiamo molto poco su di essa. E ancora: c’è un’energia che sta facendo espandere l’universo, che chiamiamo “energia oscura”, e non abbiamo idea di che cosa sia. Quindi, allo stesso tempo sappiamo molto ma non sappiamo nulla. Ogni volta che si va più lontano nello spazio, e indietro verso l’origine dell’universo, ci sono grandi incognite che si aprono.

22.000 stelle del catalogo di Hipparcos sono state inserite insieme a 1000 stelle di bassa luminosità del Gliese Catalogue of Nearby Stars nel diagramma di Hertzsprung- Russell, rappresentazione grafica di Richard Powell

È molto interessante che lei abbia pensato fin dall’inizio che con 51 Peg avevate appena scalfito la punta dell’iceberg. Qual era il ragionamento alla base di questa convinzione?

Nella scienza accade spesso di trovare qualcosa che ci sembra straordinario, ma in realtà la ragione della straordinarietà risiede nello strumento costruito per trovarlo. Quando ciò accade, ci si rende conto di come quello che in principio sembrava un oggetto eccezionale sia in realtà estremamente comune. Tale ragionamento è valido non solo per la scienza. Ad esempio, la percezione che spesso abbiamo di essere unici nell’universo penso sia solo un’illusione. Credo ci siano molti altri pianeti come la Terra e che ci sia vita ovunque nell’universo. Non possiamo essere speciali. Crediamo di esserlo solo perché non sappiamo nulla.

Tornando ai pianeti extrasolari, avevo trovato 51 Peg in orbita intorno a una delle venti stelle di riferimento che dovevo usare per settare lo strumento. Se ero stato in grado di trovare un pianeta su venti stelle casuali significava che, una volta ottenuto lo strumento, trovare altri pianeti doveva essere abbastanza semplice. Ecco perché ho detto che probabilmente stavamo vedendo solo la punta dell’iceberg. Non posso credere all’argomento dello “straordinario”. Non è il mio modo di vedere il mondo.

Quella scoperta è stata l’origine di un campo di ricerca in astrofisica interamente nuovo. Qual è il confine della ricerca in questo momento? Quali sono le domande aperte più interessanti della scienza?

Ci sono numerosi ambiti di ricerca molto affascinanti e la tecnologia disponibile oggi è sorprendente. Se si guarda alle scienze della vita, il modo in cui sappiamo giocare con la materia vivente è semplicemente incredibile. Ed è ancora più sorprendente se si pensa che la genetica è una scienza che in soli cinquant’anni ha cambiato completamente il mondo. Venendo all’astronomia, uno degli elementi chiave della ricerca ruota attorno al nostro modo di percepire e di accedere all’universo. Ad esempio, il recente rilevamento delle onde gravitazionali è un risultato incredibile e, in termini di tecnologia, è ben oltre quello che faccio io. Mentre le mie ricerche non si spingono al di là della scala atomica, il team che ha lavorato a quella scoperta è stato in grado di vedere cose così piccole da essere difficilmente immaginabili: stiamo parlando di rilevazioni su scala subatomica. Questo è un risultato incredibile: noi abbiamo occhi e mani, possiamo vedere e toccare, ma la conoscenza che la nostra mente è stata capace di raggiungere va ben oltre le capacità del nostro corpo. E per arrivare a questi risultati abbiamo usato dei “trucchi”, come la matematica, che estendono la potenza del nostro cervello. Allo stesso tempo, ci sono ancora grandi incognite. L’astrofisica, ad esempio, ha mostrato che la maggior parte della massa dell’universo è sconosciuta: è ciò che chiamiamo “materia oscura”. Non abbiamo idea di cosa sia. Sappiamo che è molta, ma sappiamo molto poco su di essa. E ancora: c’è un’energia che sta facendo espandere l’universo, che chiamiamo “energia oscura”, e non abbiamo idea di che cosa sia. Quindi, allo stesso tempo sappiamo molto ma non sappiamo nulla. Ogni volta che si va più lontano nello spazio, e indietro verso l’origine dell’universo, ci sono grandi incognite che si aprono.

Telescopio dell’osservatorio dell’Haute Provence, foto di Jean-Baptiste Feldmann

Sembra che lei stia suggerendo una sorta di doppio movimento della conoscenza in cui più si guarda lontano, più si capisce ciò che è vicino. Per cui studiando sistemi planetari lontani si raggiunge una conoscenza che ci permette di tornare a guardare il nostro sistema solare. È corretto?

Esatto, questo atteggiamento comparativo è molto comune nella scienza. Volendo semplificare, è come se, dopo una vita passata in un giardino di rose, improvvisamente ci trovassimo nella foresta amazzonica. Vedremmo che in realtà ci sono tantissimi alberi e fiori e ci renderemmo conto che quella che pensavamo fosse la grande varietà delle rose è in realtà una piccola varietà tra le tante. Non appena si amplia il proprio orizzonte, cambia la prospettiva su ciò che si conosce. In modo simile, ampliando la nostra prospettiva sull’universo comprendiamo meglio dove viviamo.

Con la ricerca sugli esopianeti abbiamo imparato che ci sono moltissimi pianeti diversi da quelli più vicini a noi. Tuttavia non sappiamo che cosa renda il sistema solare diverso dagli altri. La grande novità, e questo è stato un vero e proprio cambio di prospettiva, è che ora sappiamo che almeno la metà delle stelle che possiamo osservare ha sistemi planetari e che i loro sistemi sono diversi dal sistema solare. Dunque, oggi sappiamo che il sistema solare non è rappresentativo della maggior parte dei sistemi planetari dell’universo. Si tratta di un completo cambiamento rispetto agli anni Cinquanta. Abbiamo un sistema tra tanti, ma resta ancora da capire quanti ce ne sono con caratteristiche simili al nostro. Lo scopriremo, perché stiamo sviluppando la tecnologia necessaria per rispondere a queste domande.

E questa ricerca alimenta anche la questione aperta delle origini della vita. Che cosa sappiamo sull’argomento?

È corretto dire che non sappiamo nulla sulle origini della vita. La biologia che conosciamo è il risultato di una lunghissima evoluzione. Durante la mia lezione per il Nobel ho scherzato quando ho detto che la vita è un esperimento chimico andato male, perché quest’ultima ha preso il controllo dallo sperimentatore. Proviamo a immaginare di essere un chimico e di arrivare a un punto in cui l’esperimento non ha più bisogno di noi per procedere. Questa è la vita. Oggi c’è una nuova generazione di scienziati che sta iniziando a studiare la questione simulando il passaggio dall’assenza di vita alla vita. In futuro ci sarà qualcuno in grado di creare la vita in laboratorio. Non so se sarà una vita come la nostra, o se si evolverà in modo simile, ma credo che questa sarà la strada da seguire. E penso ci siano molti modi in cui l’astrofisica può contribuire a questa ricerca. Innanzitutto, potremmo esplorare i luoghi alla nostra portata, come Marte e Venere, o i satelliti di Giove e di Saturno, perché in questi contesti la chimica potrebbe essere diversa, e così anche il risultato. Penso sia molto probabile che ci sia stata vita su Venere, e forse c’è ancora, sotto la superficie: non lo sappiamo solo perché non ci siamo mai stati. Altri pianeti e altre stelle, invece, sono troppo lontani: la sfida per raggiungerli è immensa. Ma possiamo studiarli a distanza, e possiamo costruire strumenti più potenti per condurre le osservazioni. Possiamo analizzare la loro atmosfera, e per questo lo studio della meteorologia terrestre sviluppato con i satelliti artificiali si rivelerà estremamente utile. Potremmo trovare pianeti che sono inspiegabili per la geofisica contemporanea, oppure potremmo trovare pianeti che sono cloni della Terra. Impossibile dire cosa troveremo. Ma credo che questo sarà il modo in cui potremo continuare a studiare l’origine della vita. Siamo appena all’inizio del gioco, e saremo ricordati come i pionieri del campo, ma anche come i suoi dinosauri. Molto altro ancora deve venire, con grandi attrezzature e grandi computer.

Progetto di una futura colonia marziana, illustrazione 3D, 2019

Recentemente si è impegnato, in qualità di scienziato, nel dibattito pubblico, in particolare sulla questione del cambiamento climatico. Secondo lei, quale dovrebbe essere il rapporto tra scienza e società? Nel dibattito sul cambiamento climatico, ad esempio, la posizione della scienza e degli esperti è spesso messa in discussione.

Questa è una domanda molto complessa, ma credo che abbia una risposta semplice. Penso che tutto il dibattito sull’impatto che abbiamo sul clima non abbia senso. L’effetto riscaldante della CO2 è stato studiato e compreso fin dal XIX secolo. Si può misurare la crescita del gas e, ancora meglio, si può semplicemente confrontare la crescita di CO2 con l’aumento della temperatura. Non è un problema scientifico. La questione è la risposta della società alla scienza, e quello che mi preoccupa è l’atteggiamento della società nei confronti della scienza. Come è possibile che una società fondata sui risultati della scienza rinneghi la scienza stessa? Perché c’è una negazione, o un’incomprensione, del modo in cui la scienza funziona. Essa è un processo basato sui fatti. Ci sono fatti, ci sono conclusioni, e tali conclusioni vengono messe in discussione da altri fatti. Si può credere in Dio se si vuole, ma non è necessario credere nel riscaldamento globale: basta guardare i fatti. E se non si comprendono i fatti ci sono due opzioni: o si studia o ci si fida degli esperti. Ma se non si vuole studiare e si mettono in discussione i fatti, perché degli esperti ne abbiamo avuto abbastanza, ci si trova in una situazione davvero pericolosa, che ormai ha raggiunto i più alti livelli decisionali. C’è una spaccatura tra i risultati della scienza e ciò che la scienza riesce a comunicare. Dato che ora ho molta più visibilità di prima, vorrei fare la mia parte per cercare di risolvere questa contraddizione.

C’è un passaggio nella sua lezione per il Nobel in cui dice che ci sono momenti nei quali la scienza batte la fantascienza. Potrebbe approfondire questa affermazione? Quali sono i rapporti tra scienza e immaginazione, tra scienza e immaginario pubblico?

Si dice che la fantascienza sia l’arte di esplorare tutte le possibilità. Ma è interessante rendersi conto che a volte le possibilità che si esplorano rientrano nei limiti della propria comprensione. La scienza supera la fantascienza quando mostra qualcosa che prima era semplicemente impossibile da immaginare. Sono felice che a volte questo accada, è un segnale che stiamo facendo progressi. La fantascienza mi appassiona molto quando esplora le reazioni della società alla scienza e alla tecnologia. Ad esempio, interessante potrebbe essere un libro di fantascienza che descriva le conseguenze tra trecento anni di aver negato il cambiamento climatico.

Nel caso della ricerca sui pianeti, la fantascienza era molto al di sotto della realtà. Abbiamo trovato pianeti assai più sorprendenti di quanto si immaginasse. Ora la fantascienza sta recuperando terreno: ci sono storie su 51 Peg e su altri esopianeti. Questo significa che anche i risultati della scienza che non hanno un impatto diretto sulla società diventano di dominio pubblico. In fondo ciò che facciamo, come scienziati, è donare conoscenza all’umanità. Ed è un bene che poi tale conoscenza venga assimilata dalla società, perché questo è il fine ultimo della scienza.