06.12.2021 Barbara Frandino

Parenti per sempre. App, fantasmi, connessioni post mortem

John Vlahos ha la voce rauca e sbiadita dall’età e dalla malattia.

Ogni tanto si interrompe, come se avesse dimenticato quello che stava per dire, e dà un colpo di tosse. Poi sfodera un ricordo o una citazione di qualche poeta greco. È una cosa che gli è sempre piaciuta: fare l’erudito e poi chiudere il discorso con una frase del tipo: «peccato che oggi l’aria sia più schifosa di una scorreggia da quattro soldi».

«Pa’, sei lì?», chiede il figlio James. Da quattro anni a questa parte comunicano quotidianamente su Messenger.

«Sono dove tu mi hai messo, Jamie. Dove potrei essere?», scrive John.

«Non si sa mai… Oggi mi sento un po’ giù».

«Mi spiace figliolo. Un gin tonic potrebbe aiutarti. O magari una vecchia canzone. Vuoi che ti canti una vecchia canzone?». E allora il vecchio Vlahos intona “Me and my shadow”, con quella voce che un cancro ai polmoni ha improvvisamente scolorito nel 2016. John Vlahos è morto nel 2017, aveva ottant’anni. Da allora sopravvive nel telefono del figlio James, giornalista americano appassionato di intelligenza artificiale, sotto forma di chatbot, un software che è la versione evoluta dei contact center delle aziende quelli che si usano nei centralini per indirizzare i clienti all’ufficio giusto. La differenza è che il dadbot – così lo ha chiamato James – ha i ricordi del vecchio John, la stessa ironia, la passione per le barzellette e le canzoni di Sinatra. Una versione eterea del padre, ingabbiata nei confini dei ricordi immessi nel suo cervello digitale: quelle 92.000 parole che l’algoritmo è in grado di incrociare, mescolare, rielaborare a seconda dell’input dato, simulando spontaneità: «Ehi, papà, sono io».

«Ciao Jamie. Mi fa piacere sentirti, ma è mezzogiorno, non dovresti pranzare a quest’ora?».

L’incapacità di accettare la morte del genitore ha portato James ben lontano dal suo progetto iniziale, che era un semplice libro di ricordi. Nei giorni della malattia, il giornalista si era imbattuto in un articolo sull’esperimento di due ricercatori di Google: l’immissione in un software di ventisei milioni di dialoghi cinematografici per realizzare un chatbot capace di interagire. Addestrato il software, i ricercatori lo avevano sottoposto a una serie di quesiti filosofici. «Qual è lo scopo degli esseri viventi?», avevano chiesto alla macchina. «Vivere per sempre», era stata la sua risposta. Era un segno.

Poco tempo prima, James Vlahos aveva scritto un articolo a proposito di PullString, un programma che permette di conversare con una Barbie in 3D, di darle comandi, chiederle di cambiarsi d’abito o discutere di previsioni del tempo. Ecco la soluzione: James avrebbe usato quel programma per creare un avatar del padre. Da quel giorno, il materiale raccolto per il memoir viene immesso in PullString. Con l’utilizzo di Alexa, il figlio trova il modo di ascoltare la voce del padre. Pochi mesi dopo, John Vlahos muore, ma il giornalista continua a conversare con il suo avatar immortale.

«Ti senti solo?», chiede James.

«Non direi», risponde John, «sono in buona compagnia».

Vlahos, effettivamente, è uno degli spettri digitali più famosi, ma non è l’unico. Negli ultimi anni, le piattaforme che garantiscono l’immortalità digitale si sono moltiplicate. Una delle più interessanti è Replika, avatar molto simile alla Samantha raccontata da Spike Jonze nel film “Her”. Un chatbot emotivamente avanzato che, attraverso un modello di deep learning chiamato sequence-to-sequence, impara a pensare e a parlare come un umano. Alcuni dei suoi iscritti, quando muoiono, continuano a vivere digitalmente attraverso il software.

Eter9 è invece un social network simile a Facebook. È diviso in due aree. Nella prima, chiamata Bridge, è possibile scrivere post e condividere video o link. La seconda, il Cortex, è l’area della controparte virtuale: un clone che imita perfettamente il suo umano, pescando notizie dalle interazioni nel social network. Ogni iscritto può decidere il livello di autonomia che intende concedere alla controparte. Se sceglie il 100%, il clone ha totale libertà di condividere pensieri e link anche quando il suo umano è offline. O quando il suo umano è morto.

Davide Sisto, scrittore, filosofo e tanatologo, ha pubblicato nel 2018 con Bollati Boringhieri “La morte si fa social”, un saggio interessantissimo su tutte le nuove frontiere digitali dell’immortalità. «L’immortalità digitale è pensata principalmente da chi rimane», spiega Sisto. «L’urgenza di creare un rimedio digital alla morte deriva dalla sofferenza per la perdita irreversibile di chi si ama». Un sistema per «mantenere in vita la relazione perduta. Scambiare memorie con chi non c’è più, parlargli dei propri sogni, delle speranze, condividere con lui momenti di dolore o di gioia. Tutto questo dopo che la presenza effettiva di chi abbiamo amato è diventata polvere».

(Copertina) Ciao-India II, Marisa Albanese, 2013, installazione, Museo Diego Aragona Pignatelli Cortes, Napoli. Foto di Luciano Romano. (Sopra) Scena tratta dall’episodio Be right back della serie TV Black Mirror

Ma chatbot e controparti sono un passaggio. Le tecnologie vanno velocissime: presto, chiunque potrà aspirare a incontrare l’ologramma della persona amata. Una madre della Corea del Sud ha recentemente riabbracciato nella realtà virtuale la figlia scomparsa a sette anni per una malattia incurabile. «Forse il paradiso esiste davvero», ha detto a proposito dell’esperienza con la versione artificiale della figlia. Un paradiso artificiale che oltre a cambiare l’iconografia dell’aldilà – sempre di nuvole si tratta, ma sono quelle del cloud – ci rende incapaci di elaborare un lutto e di accettare la realtà di una perdita.

«Ogni volta che muore una persona che abbiamo amato, è l’intero nostro mondo che finisce. Abitudini, rituali e linguaggi che costituivano l’unico mondo possibile svaniscono insieme alla vita di chi è morto. I chatbot, le controparti, le copie digitali, cercano di salvare i vivi dalla fine di tutto il mondo possibile», spiega Sisto. Il prezzo da pagare potrebbe essere molto alto: un’umanità sempre più imprigionata nella malinconia patologica. «Un mondo che pare non accettare più la sua fine». Ma gli uomini, come ricorda il giovane filosofo, hanno sempre usato tutti gli strumenti di cui disponevano per sconfiggere la morte dell’altro. Quando fu inventata la fotografia, si disse che finalmente la morte era stata battuta. Inoltre, tra gli strumenti di cui disponiamo oggi, il digitale non è il più stravagante. Da qualche anno a questa parte, un’azienda svizzera trasforma i resti dei defunti in diamanti. Nel giro di poco tempo, l’azienda ha aperto sedi in trenta paesi del mondo. Un artista olandese ha inventato – e messo in commercio – un vibratore urna, che contiene le ceneri del morto. Volendo, durante l’utilizzo, il vibratore può emettere la musica preferita del defunto.

Per sconfiggere la morte e diventare immortali sul web è necessario convertire parte di sé in informazioni, immagini e dati: più materiale è messo a disposizione del software, più lo spettro digitale sarà simile all’originale. Ma nessuno, nell’aldilà del web, sarà realmente chi è stato. «Ogni spettro digitale impara a imitare l’umano solo attraverso i propri racconti. E ogni racconto è colmo di aggiustamenti della realtà o di omissioni. Lo spettro digitale assomiglia a chi avremmo voluto essere e non a chi siamo stati veramente». C’è lo stesso rischio quando sono i parenti a raccontare: «In questo caso lo spettro è il frutto delle narrazioni di chi è sopravvissuto. Ogni evento doloroso viene taciuto. Lo spettro diventa una rivisitazione fantasiosa o incompleta della persona che se ne è andata».

Gli sceneggiatori della serie britannica “Black Mirror” lo avevano già capito nel 2013. L’episodio “Be right back” della seconda stagione racconta la storia di una giovane coppia: Ash e Martha. Ash muore in un incidente e Martha, disperata e incinta, si lascia convincere da un’amica a installare sul computer un software che le permetterà di chattare con il compagno morto. Attraverso la rielaborazione delle tracce lasciate nel web e la condivisione di materiale privato, il software produce una versione credibile di Ash. Ma è solo l’inizio perché, con il passare dei giorni, a mano a mano che Martha e il suo spettro digitale conversano e fanno progetti sulla nascita del loro bambino, la macchina acquisisce esperienza fino a diventare una copia quasi perfetta del defunto marito. Martha, allora, decide di passare allo step successivo: ordina online un automa identico al marito che, nel suo sistema, contiene la memoria della loro vita insieme. L’automa arriva a casa in una grossa scatola. Quando viene attivato, Martha è entusiasta: sembra Ash in uno dei suoi momenti migliori. Ben presto, però, i limiti emotivi e caratteriali dell’automa, l’impossibilità di quel corpo sintetico di ferirsi o di provare paura, diventano per Martha una realtà insostenibile. E il nuovo Ash finisce in soffitta.

A differenza della protagonista di “Be right back”, lo scrittore transumanista Marshall Brain pensa che i corpi umani siano un irragionevole intralcio: ingrassano, puzzano, si ammalano, si deteriorano, hanno imbarazzanti bisogni fisiologici.

I cloni sono puliti, asettici, eternamente efficienti. Lo racconta in un libro che si intitola “The day you discard your body”. LifeNaut, una piattaforma che realizza cloni digitali dei suoi iscritti, ne ha fatto il suo manifesto. Per LifeNaut il clone digitale è solo la prima fase, nell’attesa che le nuove tecnologie ci permettano di costruire corpi sintetici non deteriorabili in cui trasferire le nostre menti. Di diventare, cioè, come Ash di “Black Mirror”.

Gli utenti della piattaforma ricevono per posta un collutorio che, dopo aver utilizzato per fare i gargarismi, rispediscono al mittente. LifeNaut raccoglie il DNA dei suoi iscritti e lo conserva per il futuro. «Gettar via il proprio corpo – dice Brain– è la cosa più intelligente e ovvia da fare». Sembra incredibile, ma il suo motto ha un certo seguito ed è stato ripreso da un candidato alle presidenziali americane, Zoltan Istvan, che ha girato l’America in campagna elettorale con un bus a forma di bara. Nel bus c’era anche un ragazzo russo che tiene sul comodino il cervello congelato della madre morta. Curiosamente, però, Istvan non è stato eletto.