Supercar, ultima frontiera. A Stoccarda è stata presentata l’ultima nata in casa Porsche: è la Vision Gran Turismo. È (ovviamente) bellissima: le linee rispettano la grande tradizione sportiva della Casa tedesca, presenta alcune soluzioni di design assolutamente rivoluzionarie. Si vede, si sente e, ovviamente si guida. Ma non si può toccare né acquistare, almeno non nel senso più classico del termine: la Porsche Vision Gran Turismo è la prima auto progettata esclusivamente per un videogioco e sarà “accessibile” solo ed esclusivamente agli appassionati digitali.
Se si chiama Gran Turismo è proprio in omaggio al videogame di cui sarà protagonista. Si tratta della settima edizione del titolo, ormai cult tra gli appassionati, di Polyphony Digital, casa di produzione di videogiochi che ha sede nel quartiere Koto di Tokyo. Sarà ufficialmente in vendita dal 4 marzo del 2022. Il videogame, che gira su piattaforme Playstation, conta milioni di giocatori ed è apprezzato, in tutto il mondo, per l’accuratezza della simulazione di guida. Sin dalle primissime uscite, il “prodotto” ha letteralmente rivoluzionato il segmento automobilistico del mondo videoludico. Puntando, fortissimo, sul realismo dell’esperienza di guida, curato fin nei dettagli. Adesso, insieme a Porsche, punta a superare frontiere vecchie e nuove dell’automobilismo.
La Porsche Vision Gran Turismo riprende molto da vicino le linee della Taycan, la supersportiva elettrica di Stoccarda e valorizza l’eredità immortale che le arriva dall’iconica 911. I dettagli sono curatissimi. Nell’abitacolo, impostati sulla “classica” seduta bassa da sportiva, c’è una soluzione futuristica: il display olografico è letteralmente “sospeso” davanti agli occhi del pilota. Ma rimane, però, curvo come da tradizione Porsche. I progettisti, inoltre, hanno spiegato di aver studiato e progettato un’auto “reale”. Hanno dovuto immaginare l’uso di materiali nobili, come carbonio e titanio, per alleggerire la struttura portante e garantire prestazioni importanti alla vettura, naturalmente elettrica. La fedeltà al realtà, o meglio alla materia, non è un dettaglio. Altrove, invece, qualche concessione al marketing. Come l’annuncio di aver voluto utilizzare, per gli interni, “solo materiali interamente vegani”. Un modo per sottolineare null’altro che i sedili, sebbene digitali, non saranno in pelle. Cosa che rende omaggio ai dettami imperanti del marketing politico-ideologico. Quello che, per intendersi, crea identificazione e fidelizzazione al marchio da parte dei clienti (veri o potenziali) che condividono, oltre a una passione anche una visione del mondo, e, solleva reazioni contrarie che, comunque, sono utilissime alla comunicazione. Del resto, già (molto) prima di Facebook, lo sapevano anche le nostre nonne: ‘nel bene o nel male, purché se ne parli’.
La digitalizzazione ha, evidentemente, mutato anche la dimensione umanissima del gioco. E l’autovettura, anzi la supercar che ne è quasi sublimazione, non poteva certo fare eccezione. Tanti anni fa, le macchinine si facevano da bambini coi carretti in strada. Quelle che nel mondo anglosassone si chiamano “soap-box”. E che, oggi ancora, “corrono” nei campionati di quartiere, cittadini, regionali e, grazie all’interessamento di una notissima multinazionale, anche in competizioni internazionali.
Niente a che vedere, però, con i grandi tornei videoludici che si giocano in rete. Che, secondo le analisi di diversi esperti, in alcuni casi fanno concorrenza addirittura del maggiore evento sportivo del mondo, il Super Bowl americano. E coinvolgono milioni e milioni di utenti da ogni angolo del mondo. Un fenomeno che è cresciuto in rete, specialmente negli ultimi anni quando si è potenziata la capacità di condividere partite online tra giocatori di ogni parte del mondo, e che ha consentito al settore dei videogiochi fatturati golosissimi, che su scala planetaria vale centinaia di miliardi di dollari. In pratica, una miniera d’oro. Che, oltre a far guadagnare fatturato, crea immaginari nuovi. E non è una cosa di adesso: il mito della Ferrari Testarossa, negli anni ’80 e ’90, fu puntellato – in tutto il mondo – anche da quel videogioco Sega pionieristico, campione di incassi e raccattatore di miliardi e miliardi di monetine in ogni sala giochi dell’orbe terracqueo, che è stato Out Run.
Una “mutazione” culturale, quella del gioco, che era inevitabile nell’era del computer. E che non poteva certo non coinvolgere la più umana delle attività. La colse, quasi in nuce, il genio di Luciano De Crescenzo che, non a caso, fu (anche) ingegnere all’Ibm. In uno dei suoi apologhi “napoletani”, rappresentò come andava trasformandosi l’approccio al gioco per eccellenza, quello del lotto. Negli strati popolari c’era ancora chi si riferiva agli “assistiti” in contatto con l’al di là e all’antica mantica di tradurre i sogni in numeri. La smorfia. Quella che, per inciso, al cinema, ha trovato in Totò il suo più superbo interprete. Quando, in “Totò e Peppino divisi a Berlino”, si fa dare da “zia Monaca” (ovviamente di Monza...) i numeri che gli chiedono i sovietici – che intanto lo credono il feroce ammiraglio tedesco Canarinis – sperandoli coordinate.
La cabala,– scriveva De Crescenzo tra gli anni ’80 e ’90 - al tempo del pc, è superata. Superstizioni, retaggi di epoche oscure e ignoranti, secondo l’upper class dipinta da De Crescenzo. Che invece, per scoprire i numeri “sicuri” da giocare si affidava agli algoritmi di un super cervellone elettronico.
Se è vero che viviamo l’epoca della “società signorile di massa” e per questa gioca un ruolo fondamentale proprio il “virtuale” che garantisce la possibilità di vivere al di sopra delle proprie possibilità, forse la puntigliosa ingegneria tedesca e la proverbiale precisione “artigianale” giapponese hanno unito le loro forze per aprire una strada nuova. Che va al di là persino della “rivoluzione” ludica. Quella della motorizzazione (digitale) di massa.