Nel punteggio DESI (Indice di digitalizzazione dell'economia e della società) l’Italia, nel 2022, si colloca al 18º posto fra i 27 Stati membri dell'UE. Non è di certo una buona posizione per un Paese che è la terza economia dell’UE per dimensioni; tuttavia, i segnali di avanzamento sono incoraggianti al fine di accelerare la trasformazione. Entrando nel merito, la pandemia ha evidenziato l'importanza degli strumenti digitali, infatti, secondo l’ISTAT, il 12,3% dei minori tra i 6 e i 17 anni non ha avuto a disposizione né pc né tablet, fondamentali per restare al passo della didattica a distanza. Dal punto di vista educativo, invece, l’”ok boomer” utilizzato dalla Generazione Z per infierire sulle passate generazioni potrebbe creare un effetto boomerang.
Secondo l’indagine internazionale ICILS (International Computer and Information Literacy Study) condotta nel 2018, (a fine 2024 verranno pubblicati i nuovi risultati), una percentuale di circa il 24% di studenti in Italia di 13 anni non raggiunge i livelli minimi di competenze relative all’alfabetizzazione digitale di base, in particolare la conoscenza degli strumenti, le loro funzionalità e la risoluzione dei problemi. Dunque il tema della formazione digitale all’interno del sistema scolastico, destinata nel tempo a incidere profondamente sul metodo dell’insegnante e dell’apprendimento, è oggi fondamentale. Come si fa dunque a distinguere il piano compulsivo della tecnologia, distrazione principale dell’apprendimento, con quello che può rappresentare un’utile risorsa per il processo di traduzione che gli insegnanti sono tenuti a realizzare al fine di lasciare traccia del loro operato sul futuro degli studenti? Nel volume Docenti Digitali. Insegnare e sviluppare nuove competenze nell’era di Internet (Mulino editore) Barbara Volpi prova a rispondere a questa domanda: «non serve andare molto lontano: come già hanno fatto illustri ricercatori nell’ambito della psicologia dello sviluppo e della pedagogia, è sufficiente ricorrere all’empatia, aprendo gli occhi, ognuno dal proprio personale focus esperienziale, e mettersi nei panni del bambino per cercare di comprendere «cosa gli frulla in testa», quali sono le sue intenzioni, come vede il mondo, come capta le informazioni e le organizza mentalmente […].
Un processo che può essere agevolato da attività di storytelling o dalla messa a punto di video didattici, oppure il docente può lasciare che i ragazzi lavorino in autonomia con gli strumenti digitali, ponendosi nell’ottica di una supervisione a posteriori del processo creativo; un processo che si può realizzare solo tramite la costruzione di un linguaggio comune che dia vita a una media literacy del futuro in cui insegnanti e alunni siano diretti protagonisti». Strumenti digitali e didattica tradizionale devono sicuramente convivere per porre le basi di una nuova impresa formativa. È necessario prima di tutto verificare il livello di alfabetizzazione digitale della famiglia, poi organizzare incontri con la stessa per formulare un percorso di educazione digitale, attivare poli di ascolto per le complessità della rete e infine monitorare gli apprendimenti. La scuola ‘virtuale’ senza un’adeguata preparazione è un tema che raccoglie docenti e alunni, per la prima volta i figli studieranno una materia che i loro genitori non hanno imparato, serve una specie di patto speciale con le famiglie.
Due degli elementi essenziali, da sviluppare in un programma scolastico inclusivo e reticolare, per garantire la pienezza dei diritti d’infanzia e dell’adolescenza nell’era digitale, riguardano, ad esempio, il riconoscimento delle notizie false online, la gestione delle password e l’acquisizione di conoscenze sui rischi relativi all’invio di immagini personali. Utilizzare poi le nuove tecnologie per l’apprendimento (dall’uso del podcast al videogioco come rilettura a fini didattici) potrà definire in modo attivo, il proprio essere, il rapporto con gli altri e la conoscenza del mondo. Sempre nel sopracitato volume l’autrice, riferendosi al tinkering, nuovo metodo di apprendimento nato per le discipline STEM (Science, Technology, Engineering, Mathematics), muove l’idea del «tinkering sulle emozioni. Perché non applicare questo metodo alle emozioni?
Si possono immaginare contesti di comunicazione e condivisione in cui, evidenziando e correggendo gli errori, si riflette su quanto sperimentato. Diamo l’opportunità ai ragazzi di parlare e di esprimere le emozioni, e mettiamoci in ascolto. Per mettiamo loro di utilizzare in modo consapevole il proprio linguaggio e sviluppiamo tutorial in cui i gruppi sperimentali possano compattarsi dando senso alle emozioni e di rimando al touch. Nasce così il laboratorio tinkering sul raccontare e sperimentare le emozioni ai tempi del web. Ogni gruppo prende per mano un’emozione e decide di realizzare un tutorial da trasmettere ipoteticamente ad altri ragazzi in un processo di condivisione collaborativa».