Quella riscoperta della Costituzione

Di Paolo Armaroli

08 febbraio 2021

Stiamo assistendo a una vera e propria rivoluzione copernicana. Dall’ieri all’oggi tutto sta cambiando anche sotto il profilo squisitamente costituzionale. Basterà ricordare che nei colloqui tra l’esploratore Roberto Fico e i partiti della vecchia maggioranza allargata ai “responsabili” si era parlato di tutto, di più. Senza neppure un briciolo d’ipocrisia che, sosteneva Franҫois de La Rochefoucauld, è un omaggio che il vizio rende alla virtù. Si era cominciato a parlare del programma di un governo ancora di là da venire e si è finito per mettere nelle varie caselle ministeriali questo o quel nominativo di giallorosso vestito. Senza mai domandarsi, neppure per sbaglio, se fossero gli uomini giusti al posto giusto. Se fosse finita così, il futuro presidente del Consiglio, fosse stato Giuseppe Conte o qualsiasi altro, si sarebbe ritrovata la pappa già bella scodellata. La stessa pappa che nel 2018 fu imposta al professore di diritto civile dell’Università di Firenze, senza che quest’ultimo potesse eccepire alcunché. Un robot teleguidato.

Dall’esplorazione di cui sopra a oggi sono passati appena pochi giorni, e nulla è più come prima. A cominciare dalla suprema magistratura dello Stato. Lo si è già detto ma repetita iuvant. Come Vittorio Emanuele III, Sergio Mattarella ha sempre lasciato intendere che i suoi occhi e le sue orecchie sono quelli del Parlamento. Si è avvalso spesso e volentieri della britannica moral suasion con alterna fortuna. Ha dimostrato una pazienza degna di Giobbe. E non ha mai alzato più di tanto il tono della voce nella convinzione che quello che conta sono le parole, nude e crude, possibilmente alla portata di tutti. Perché, come si diceva nell’antica Roma, nomina sunt numina. Ma c’è un momento che occorre dire “Basta!”. E proprio questo ha detto l’inquilino del Colle senza troppi giri di parole. Perciò, senza procedere a un secondo giro di consultazioni con le forze politiche, Mattarella ha conferito senza indugio un incarico, che più ampio non si potrebbe sotto tutti i punti di vista, a Mario Draghi. Subito concepito da ampi settori dell’opinione pubblica, prima ancora che si mettesse all’opera, come un Garibaldi redivivo. Ma sì, una sorta di salvatore della Patria. Con buona pace di Bertolt Brecht, noi abbiamo un disperato bisogno di eroi. Per compensare, come afferma un autorevole storico delle dottrine politiche come Dino Cofrancesco, la fossa delle Marianne nella quale siamo precipitati.

Dopo aver illustrato i motivi che al momento sconsigliano un ricorso immediato a elezioni anticipate, Mattarella il 2 febbraio scorso ha avvertito il dovere “di rivolgere un appello a tutte le forze politiche presenti in Parlamento perché conferiscano la fiducia a un Governo di alto profilo, che non debba identificarsi con alcuna formula politica”. Insomma, un governo di tutti e perciò di nessuno. Due sottolineature, quelle del capo dello Stato. Innanzitutto, un governo di alto profilo, che andreottianamente non tiri a campare per non tirare le cuoia. E poi non un governo di coalizione come quelli ai quali siamo abituati. Ma un governo che, a prescindere dalla sua composizione, non si identifichi con nessuna formula politica del passato.

Sergio Mattarella e Mario Draghi al Quirinale

Un governo del Presidente, dunque. Ma adesso si sta profilando un governo dei due Presidenti: del Presidente della Repubblica ma anche – direbbe l’ecumenico Walter Veltroni – del Presidente del Consiglio. Sì, perché Mario Draghi nel corso delle sue consultazioni non solo ha preso una quantità di appunti avvalendosi con una punta di civetteria di una comune penna Bic, ma con garbo non disgiunto da fermezza ha messo anche le mani avanti. Per quanto concerne sia il programma sia la fisionomia, o struttura che dir si voglia, del futuro ministero. Sotto il primo profilo, ha sì preso buona nota dei desiderata dei suoi interlocutori, ma poi ha affermato che la sintesi del programma spetta a lui. E, a scanso d’equivoci, ha aggiunto che chi non concorda con la sua sintesi può fare a tempo a tirarsi indietro. Sotto il secondo profilo, Draghi ha chiarito che i partiti sono certamente legittimati ad avanzare qualche nominativo. Purché si tratti di persone competenti. A suo insindacabile giudizio, si capisce. Merito, competenza, termini desueti. Già ai tempi suoi Giuseppe Maranini, il critico della partitocrazia, affermava che da noi la selezione della classe politica avviene regolarmente alla rovescia. E di un segretario di partito, a conferma della tesi di Maranini, si diceva che faceva correre le Cinquecento e lasciava in autorimessa le Ferrari.

Grazie a questa rivoluzione copernicana, che manda in soffitta una volta per tutte il manuale Cencelli, abbiamo la riscoperta della Costituzione. Se è vero che ai sensi dell’articolo 49 tutti i cittadini hanno diritto di associarsi liberamente in partiti per concorrere con metodo democratico a determinare la politica nazionale, è altrettanto vero che ai sensi del capoverso dell’articolo 92, una disposizione violata più della vecchia di Voltaire, “Il Presidente della Repubblica nomina il Presidente del Consiglio dei ministri e, su proposta di questo, i ministri”. Non basta. Il primo comma dell’articolo 95 recita: “Il Presidente del Consiglio dei ministri dirige la politica generale del Governo e ne è responsabile. Mantiene l’unità di indirizzo politico ed amministrativo, promuovendo e coordinando l’attività dei ministri”. Tutt’altro che un re Travicello.

Ma allora, per evocare l’interrogativo di questi giorni, governo tecnico o politico? Un falso dilemma, tutto sommato. Perché l’importante è che sia un ministero composto di competenti. Come mai è accaduto in questi ultimi anni. E, soprattutto, un governo dei due Presidenti. Che lavoreranno di concerto per dare un futuro all’Italia. L’intendenza, statene certi, seguirà.