Da urbinate Arezzo per me è sempre stato un punto di caduta naturale, oltre l’appennino, con San Sepolcro e Monterchi sulle tracce di Piero della Francesca. Un giuntura di Toscana, Umbria, Marche e Emilia Romagna. Guardarla in mappa sembra competere con il birillo rosso del biliardo del caffé centrale di Foligno per il primato di centro d’Italia. Città di commerci e di produzione. Tessuti, metalli, oro in particolare ma non solo. Materiali con cui ha molto a che fare la piccola storia di cui parliamo che, direi, è anche storia di donne. È Gino che facendo l’autista di camion nel Corno d’Africa mette insieme un gruzzolo significativo che sarà necessario ad avviare l’azienda ma è Angiola sua moglie che, rimasta ad Arezzo, gliela fa trovare avviata mettendo in piedi una attività di robivecchi: stracci, ferrami, pellame, carta, vetro. Materie prime da economia circolare. È proprio vero che non si inventa mai niente.
Al rientro di Gino quella diventa la ditta individuale Alterini Gino registrata al Consiglio provinciale dell’Economia Corporativa al n.14695 del 25 febbraio 1939 XVII dell’era fascista. I cumuli di ferro e stracci crescono e saranno molto richiesti, finita la guerra, per la ripresa della vita civile e lavorativa. Neppure la distruzione della casa a seguito dei bombardamenti riuscirono a fermare Gino e Angiola nella spinta verso un futuro sempre più organizzato e solido. Solido come il ferro che diventa gradualmente il cuore dell’azienda. Sarà Altero detto Vasco, quello della bicicletta, a prendere le redini dell’azienda di famiglia e a tenerla unita con i fratelli attorno ai depositi di via Madonna del Prato. Una delle tante aziende familiari italiane in cui il concetto di responsabilità sociale non aveva bisogno di essere elaborato in seriosi convegni perché era insito nelle relazioni umane con gli operai e le loro famiglie, nel rapporto con le istituzioni comunali e territoriali, nelle relazioni commerciali per cui la parola davvero valeva più di uno scritto e una figuraccia pesava più di una condanna. Rigore. Vasco fa in tempo a godersi l’ottantesimo della azienda nel 2019 e a pronunciare uno dei suoi “Eh” vedendo il “Cubo di Vasco” vincitore della borsa di studio bandita nel 2018.
Il cambio generazionale è per queste aziende un tallone d’Achille per cui non c’è rimedio. Una crisi di passaggio che non fa sconti a nessuno. La simbiosi fra uomo e azienda è tale che trasfonde nei muri e nelle macchine un ciclo vitale umano, i futuristi lo avevano percepito perfettamente, tanto che troppo spesso “simul stabunt vel simul cadent”. Anche per questo la specificità nazionale delle piccole e micro imprese viene trattata da troppi commentatori sbrigativamente, come una eredità di cui liberarsi in fretta. Anche per la Alterini, quindici dipendenti appena e pochi milioni di fatturato, quel momento è arrivato e non certo per la pandemia che anzi ha evidenziato come in emergenza queste aziende di prossimità siano essenziali. Paolo e Mariangela figli di Elda e Vasco non mollano. Elaborano il lutto, posizionano in bella evidenza la bicicletta che ogni mattina parla loro un linguaggio chiarissimo. Sistemate le cose di famiglia decidono che è tempo di rilanciare ripartendo proprio da una versione aggiornata della responsabilità sociale dell’impresa.
La cultura del saper fare bene non si può rottamare e il valore aggiunto della “memoria”, che Mariangela (non tutti sanno che di norma le donne venivano tenute fuori dalle aziende di famiglia) ha coltivato nelle sue esperienze lavorative con i musei d’impresa oggi di Leonardo, diventa un additivo che accende il nuovo corso. Un impasto saporito come quello dei crostini neri quello fra la visione di Mariangela e il lavoro duro di Paolo che è possibile trovare in azienda ancora a mezzanotte. “vogliamo che si realizzi una nuova contaminazione di saperi verso un Rinascimento 4.0, per promuovere la cultura e la formazione per lo sviluppo dei territori e delle comunità, unire la conoscenza tecnica, scientifica e la ricerca con la cultura e le arti verso un umanesimo tecnologico. Il tema vero di oggi sono le competenze delle persone. Quindi la loro "formazione” su questo concordano e concordemente agiscono. Ma se non ci metti del tuo le chiacchiere stanno a zero. Ed ecco che una palazzina di 300 mq, pur in un momento di oggettiva necessità, invece di essere affittata o venduta diventa il FabLab-Alterini.
Uno spazio da dedicare alla memoria, alla formazione e alla creatività. Ma come si fa concretamente a far decollare una esperienza di questo tipo? Io l’ho capita così. Non c’è niente da inventare quello che serve è tutto lì a disposizione basta saperlo vedere, metterlo insieme e saperlo fare. Come un blocco di marmo contiene una scultura, un tubo di ferro una lampada, un vecchio filo di ferro un cestino, dei trabattelli tavoli con le ruote. Basta saper vedere le tante forme che la materia contiene. Ed è così anche in un progetto immateriale formativo. “Aiutateci a trovare lavoratori con voglia di lavorare e che sappiano leggere un disegno tecnico” chiedono le aziende. “Fateci uscire dal cono d’ombra” chiedono gli istituti tecnici e le scuole professionali. Poi ci sono le leggi piene di buona volontà e di altrettanti fallimenti che prevedono l’alternanza scuola lavoro, ci sono la Camera di Commercio e le associazioni imprenditoriali, c’è la Regione e la sua competenza sulla formazione finanziata da fondi europei. Tutto questo insieme va fatto girare per il verso giusto rompendo le ritualità che producono solo paralisi. Ma soprattutto ci sono loro i ragazzi.
Appena li fai uscire dal tran tran scattano dal divano e dagli smartphone, drizzano la testa stancamente appoggiata sul palmo della mano, accendono gli occhi, si appassionano ad un vecchio banco da lavoro a tutti quegli attrezzi strani, si incuriosiscono davanti al racconto delle diverse tipologie di metalli, guardano rapiti vecchi filmati di fonderia, un vecchio ciclostile, le prime calcolatrici, percepiscono fisicamente le mille forme che il ferro può assumere e la creatività si accende dentro di loro. Capiscono che tra i vecchi strumenti, le macchine del FabLab al piano terra e la creatività supportata dalle nuove tecnologie del piano primo, tra l’odore di ferro e grasso di cui è impregnato il vecchio bancone al piano terra a quello pulito del piano primo c’è una continuità indissolubile che sta nel cervello e nelle mani dell’uomo.
Perché sprecare le ore di alternanza scuola lavoro ospitando dei ragazzi in aziende che se va bene fanno fare loro le fotocopie. Molto meglio che le scuole ne selezionino un gruppo e li inviino al FabLab, che le aziende attraverso le loro associazioni si iscrivano al FabLab e svolgano lì quel dovere sociale di accoglienza e di tutoraggio dei giovani. Anche per i docenti è una opportunità perché non devono svolgere semplicemente la pratica burocratica del monitoraggio dell’esperienza scuola lavoro ma si trovano coinvolti in un team che da l’indirizzo scientifico al FabLab, e questo fa bene anche a loro. È l’uovo di Colombo? No. Mettere insieme tante cose separate in una visione coerente e unitaria, farle dialogare e collaborare è uno dei lavori più moderni difficili e impegnativi. Ci vuole capacità e determinazione perché la pigrizia, lo stare ognuno chiuso nel proprio orticello, la diffidenza verso le forme aperte di collaborazione, formano una realtà molto più dura del ferro da modellare. Ma se alla Confartigianato c’è una donna se la dirigente scolastica è donna la parola d’ordine “costruire alleanze serie” tanto cara a Mariangela si può concretizzare. Mentre parla ininterrottamente da poco meno di un ora la stanza dove siamo trema scossa dallo scorrere di un carro ponte che sposta grandi carichi di ferro. (continua)