Rai, di tutto e di più. Fino a inventare il digitale

13 dicembre 2022

Di Ginevra Leganza

La storia del digitale è italiana, nasce in Rai e ha una ben precisa data: 8 giugno 1990.
A partire da questo giorno fino all’8 luglio in otto sale di cinque città italiane si trasmettono le immagini dei Mondiali di calcio in alta definizione: assist, fuorigioco e rigori che porteranno al trionfo di una Germania Ovest già carica di futuro.
E l’8 giugno l’Italia vince la sua più agognata partita: Eureka 256. 
Il digitale è l’impero del caso, della decentralizzazione, dell’anonimato e della fortuna. Ma quanto accadde nel 1990 – con i Mondiali di Calcio – fu tutt’altro che anonimo e improvviso.
È la prima volta, infatti, che un segnale tv codificato con tecniche digitali è diffuso e proiettato via satellite. Due mondi sino ad allora scissi, due paradigmi tuttora incommensurabili, analogico e digitale, s’incrociano grazie ai risultati del progetto chiamato Eureka 256.
I proiettori forniti da Seleco restituiscono in presa diretta l’odissea del pallone sui campi da calcio italiani. Video e digitale cominciano a instaurare la loro duratura intesa.
Non si trattava solo dei mondiali di calcio. Perché nell’Italia del 1990 si giocava anche un’altra partita. E sempre al livello globale. Siamo all’inizio dell’ultimo scampolo di Novecento. Ultimo tempo. 


Ma, come si può ben intuire, pochi incontri di questo genere avvengono all’improvviso.
La sintesi di freddi numeri con immagini di muscoli e palloni si radica in quel progetto, Eureka 256, proposto e voluto dalla Rai e da Telettra unite in consorzio con Telettra Española, Retevision e il Politecnico di Madrid. 
Il Centro Ricerche di Torino iniziò a collaborare negli anni ’80 con la spagnola Telettra per definire un sistema di trasmissione su ponte-radio dei segnali televisivi numerici 4:2:2.
Trasmissione su ponti-radio numerici significava, in quel tempo, spingersi in avanti nel tornante di un’epoca. Compiere un decisivo passo e dare sostanza alla ricerca. Sino ad allora gli studi televisivi erano interconnessi attraverso sistemi di modulazione analogica per lo scambio di video tra le varie televisioni. E queste reti non avrebbero potuto supportare scambi di contenuti con qualità digitale.
Posto l’obiettivo “HD”, il Centro Ricerche iniziò così la sua scalata: definire uno standard che consentisse l’evoluzione delle reti di ponti-radio digitali per il trasporto del segnale video. Quello che già riguardava le applicazioni telefoniche doveva incrociare il grande schermo per renderlo ancora più dinamico, scattante, nitido. Il digitale veniva fuori dalla caverna di numeri e codici e si mescolava alla luce dell’immagine.
Come ricorda Gianfranco Barbieri, direttore di Elettronica e telecomunicazioni (la rivista scientifica edita dal Centro Ricerche e Innovazione tecnologica Rai), la sfida – per tutti gli anni ‘90 – fu di comprimere un segnale HDTV da circa 1 Gbit/s a un valore di 70 Mbit/s attraverso algoritmi di riduzione della ridondanza spaziale e temporale. 


La stretta collaborazione Italia-Spagna decreterà il successo dell’operazione. Il consorzio ottimizzerà gli algoritmi mediante la simulazione con calcolatore; progetterà circuiti integrati e codec (ovvero software o dispositivi di codifica e/o decodifica digitale di un segnale affinché possa essere salvato o aperto per la sua riproduzione); e normalizzerà, al livello internazionale, la divulgazione e promozione dei risultati. 
Una prova di titanismo informatico all’alba dei tempi digitali. Un investimento intellettuale, finanziario e di tempo posto nelle mani del Centro Ricerche Rai. Quest’ultimo aveva acquisito una telecamera appositamente modificata per operare su due formati in competizione. La potenza di calcolo di questi infaticabili computer era comunque incomparabile a quella attuale, e le immagini in movimento erano un soggetto ostico su cui operare.
L’azienda Rai non si sottrae alla ricerca: durante il giorno definisce e organizza il lavoro per poi consentire, nottetempo, l’elaborazione di una o due sequenze test da dieci secondi. E così via, in un rodaggio dei parametri algoritmici che porterà a quel primo incontro fatale fra digitale e grande schermo, dove Telettra spicca fra i partner in campo: affina le scelte per sempre meglio integrare la tecnologia disponibile all’ambizione del progetto. 

Il Centro Ricerche, Innovazione Tecnologica e Sperimentazione (CRITS) RAI nato a Torino nel 1930 come “Laboratorio e Officine”

La corsa è senza requie finché, nel 1989, vengono definiti algoritmi e schemi di codificazione cui conseguono i brevetti depositati per la codifica numerica del segnale video. 
La chiave di volta di tutta l’architettura consiste nella parallelizzazione di più unità di codifica. Operanti l’una indipendentemente dall’altra, tutte queste unità forniscono dati ai corrispondenti buffer (“buffer” è il dispositivo di memoria usato per la conservazione provvisoria di dati da rielaborare, cancellare o trasferire in un’altra unità di memoria, allo scopo di compensare le differenti velocità di trattamento delle due unità). È così introdotta la multiplazione statistica basata sulla codifica attualmente in uso. 
In quell’estate 1990 si sprigionava una potenza fortissima: grazie all’Italia, la sperimentazione del satellite Olympus illuminava Barcellona e la fibra ottica consentiva di ritrasmettere le immagini ricevute dal satellite anche a Madrid, dove si coronava il sogno al cospetto dei reali di Spagna. La magia dirompeva nel video in alta definizione. Ottimizzazione degli algoritmi di codifica e realizzazione del codec furono ingredienti essenziali di questa moderna alchimia. 
Tutto l’incantesimo dell’immagine finalmente digitale fu reso possibile da una linea di produzione Rai operante in permanenza allo stadio olimpico di Roma. Attraverso lo standard di produzione europeo, questa prima linea consentì la trasmissione di sei partite. Una seconda linea, installata su un’unità mobile della NHK giapponese (una Rai nipponica), con il formato alternativo 1125 linee/60Hz, effettuava la trasmissione da Milano, Napoli, Torino, Firenze e Bari. 
Ogni anello della catena era sottoposto dal Centro Ricerche Rai a uno strenuo processo di ottimizzazione delle prestazioni. Il colossale lavoro di queste notti magiche culminò grazie ai proiettori Seleco, trionfo di luce sotto il cielo dell’estate italiana. 
Nel 1990 l’Italia dà prova del suo naturale prometeismo: la Rai porta il digitale all’uomo-utente come Prometeo il fuoco. Lo introduce nel video e rende l’immagine – per sua essenza analogica – qualcosa di più complesso, più sfuggente. Ma anche più potente. In questa storia sommersa da palloni e reti, la Penisola è all’avanguardia di un mondo. Gli Stati Uniti, poco dopo quell’esperienza, decidono di abbandonare gli studi per la diffusione dell’Alta Definizione in formato analogico e si dedicano a studiare sistemi nuovi di zecca (o quasi) per soluzioni in digitale.


L’Italia spalanca le porte all’avvenire ma, come spesso accade, non c’è vittoria che non porti con sé dei retroscena di amarezza. Nell’ottobre 1990 il Gruppo Fiat cede Telettra ad Alcatel, l’azienda francese specializzata nel settore dell’elettronica e delle telecomunicazioni. E tuttavia l’impronta di questa marcia italiana sul sentiero del futuro rimane se il successo di Eureka 256 cambia per sempre l’industria elettronica: mano a mano si abbandonano i sistemi Mac e HDMAC per avviare il progetto europeo DVB, il digital video broadcasting, ovvero l’insieme di standard aperti e accettati al livello internazionale per lo sviluppo e diffusione della televisione digitale. Il Centro Ricerche fu altresì cruciale nella promozione della qualità soggettiva dell’immagine televisiva ottenibile anche nel caso delle tecniche di compressione (inizialmente soggetta a degradamenti nella qualità) e nel 1994 Mario Cometti, figura centrale del Centro, ricevette il premio IBC John Tucker Award: la Rai venne quindi ricompensata per la pionieristica standardizzazione dei sistemi digitali di diffusione. 
Italia ’90 fu ben più della promessa di un goal. Insegna entrata nel codice del costume, è un ricordo ormai indelebile. Ma è anche il nome di questa meraviglia sommersa. Di un racconto made in Italy e in alta definizione, con la Rai in prima linea a schierare il suo esercito di talenti, tutti “nipotini di Marconi”, come li definisce Agostino Saccà, all’epoca vicedirettore di Rai 2 e direttore generale della Rai negli anni a venire. Italia ’90 è la storia di numeri e immagini che s’incrociano. E che fanno dell’Italia di quell’anno la coordinata spazio-temporale del primo digitale su grande schermo. Messo in scena dal paese che inventò la prospettiva in pittura e che a distanza di secoli s’inventava un nuovo modo di vedere le cose. Questa volta rigorosamente in HD.