Transizione ecologica e disuguaglianze globali

Di Anna Giurickovic Dato

17 novembre 2022

Ogni predizione del futuro, fatta nel passato, non può evitare di fare i conti con le evidenze del presente, e dal presente è necessario partire per interrogarsi sui futuri probabili: il XXII secolo sembrava dover essere l’era in cui la guerra si sarebbe giocata tra byte, invece oggi sono ancora bombe e proiettili a sfrecciare, a occupare, a stravolgere le strade e i cieli; la transizione energetica rallenta, tra eventi inaspettati e l’illusione di coloro che, sovra-semplificando, prospettano e auspicano un futuro basato sul ricorso a una soluzione unica per il fabbisogno energetico; l’innovazione tecnologica avanza disorientata, idealmente avrebbe voluto essere lo strumento adatto a ridurre le disuguaglianze globali, ma in realtà le esaspera. Parte del futuro lo conosciamo già oggi, senza bisogno di palle di vetro o di piani astrali: si delinea negli scritti degli accordi intergovernativi, nelle manifestazioni d’intenti degli Stati, nei mutamenti d’assetto e nelle impellenti necessità. Ciascun probabile futuro, se orientato, nasconde e promette numerose opportunità: a raccontarlo è il Fisico Roberto Cingolani, già Ministro della transizione ecologica.

Quella tra Russia e Ucraina è una “guerra ibrida”? Se ne parla spesso in questi termini, eppure, piuttosto che una “guerra del futuro” appare molto convenzionale…

Questa guerra in realtà è molto primitiva. È evidente da diversi punti di vista – dalla strategia militare alla scarsità qualitativa dei mezzi – che questo sia stato un approccio veramente primitivo. A parte che la guerra è primitiva di per sé, come principio, ma questa lo è anche tecnologicamente, ed è una cosa che nessuno si aspettava, al di là del fatto che non ci si aspettava la guerra… Questo, se possibile, peggiora ancor di più il profilo dell’attacco all’Ucraina, perché vediamo delle violenze che non hanno senso, violenze medioevali.
La guerra del XXI secolo non è fatta con i bullet, cioè con i proiettili, ma con i byte: non più bullet war ma byte war. È chiaro che in una società che sta andando verso la digitalizzazione completa di aeroporti, strade, conti bancari, acquedotti, energia e molto altro, al proiettile si sostituisce il byte: perché con il byte è possibile distruggere un Paese, non fisicamente, ma operativamente, bloccandogli tutte le infrastrutture che sono sotto controllo digitale.
Nel conflitto russo-ucraino, invece, la byte war non è stata particolarmente efficace, anche se ci sono e ci sono stati attacchi hacker: persino questo Ministero, mentre noi parliamo [intervista del 14 aprile 2022], è sotto attacco hacker da più di una settimana, anche se non abbiamo evidenze che l’attacco sia connesso a quel territorio. Per tali ragioni questa guerra, oltre a essere primitiva come concetto, è primitiva anche sotto il profilo tecnologico.
Detto questo, il sapiens è soprattutto un predatore, quindi la pace va difesa, non è un bene garantito. Noi dobbiamo cominciare a difenderla su due livelli: il primo è quello convenzionale degli eserciti, il secondo è digitale. Riguardo alla difesa convenzionale, occorre riflettere su questo: l’Europa è il secondo continente per spesa militare, eppure militarmente non esiste. Ciascun paese fa le proprie scelte tecniche e militari, quindi l’effetto globale dell’investimento è frazionato e risulta poco efficace. Per questo si parla molto della necessità di un esercito europeo. Bisogna però agire anche sulla difesa digitale perché, soprattutto tra paesi avanzati la guerra digitale è in grado di bloccare completamente una nazione, senza rompere un mattone, una finestra, senza colpire le persone... Tutti i paesi europei stanno investendo sulla difesa digitale; anche l’Italia che ha appena istituito l’ACN, l’Autorità nazionale per la cybersicurezza: questo dimostra come ci siano anche delle buone pratiche nel nostro Paese, ma rimane, comunque, molto da fare. Siamo ancora all’inizio.

Tra info-war e digital propaganda, algoritmi e fake news, questa guerra pone l’accento su un altro dei grandi problemi del nostro secolo. Con quali strumenti i giovani d’oggi, gli adulti di domani, possono filtrare l’informazione e superare la disintermediazione? Quali saranno i corpi intermedi del prossimo futuro?

I corpi intermedi del futuro sono la stampa libera, la famiglia, la scuola, la formazione, la libera informazione di televisioni e giornali. È chiaro, però, che se da un lato devo leggere cinque colonne di giornale, guardare il telegiornale e aspettare che i miei genitori si siedano a tavola e mi diano la possibilità di discutere, mentre dall’altro lato c’è chi, in centoquaranta caratteri, dichiara guerra alla Corea, chi mi dice che non è vero che esiste il cambiamento climatico, chi è certo di aver visto le scie chimiche, chi ritiene che i vaccini facciano male… Insomma, se in centoquaranta caratteri si sintetizzano concetti complessi e milioni di persone ripetono la stessa cosa, allora stiamo uccidendo un processo che dura da centocinquantamila anni, e che consiste nella costruzione di un castello cognitivo: è una cosa gravissima. È un problema che tutti fingono di ignorare e il motivo è che apparentemente si tratta di servizi gratuiti, ma in realtà il prodotto in vendita siamo noi. La disinformazione è evidente anche nella guerra digitale, quella fatta con i byte e non con i bullet. Bisogna introdurre la norma, rinforzare lo studio, rivalutare assolutamente la scuola, ma anche, per esempio, mettere un prezzo ai post: dal momento che i social sono veicoli che corrono sull’autostrada digitale non vedo perché il loro utilizzo dovrebbe essere gratuito.

La transizione ecologica rappresenta una direzione ormai imprescindibile per lo sviluppo futuro dell’Italia e dell’Europa, e le diverse emergenze degli ultimi anni hanno avuto l’effetto ora di accelerarne il cammino, ora di rallentarlo. Stretti tra la necessità di ridurre le emissioni e quella di raggiungere l’indipendenza energetica, c’è chi ritiene possibile il ricorso alle sole fonti rinnovabili e chi, invece, chiama in causa altre fonti, tra cui anche l’energia nucleare. Secondo lei quale sarà l’assetto tra dieci o vent’anni?

Intanto devo dire che constato, anche con una certa tristezza, una sovra-semplificazione del problema. Troppa gente tende a dare una soluzione unica – il cosiddetto silver bullet: tutti sono convinti di avere la soluzione, il proiettile d’argento che risolverà il problema, ma purtroppo non è così, è molto più complicato. Il nostro Paese è una potenza manifatturiera con sessanta milioni di abitanti, è la seconda d’Europa e una fra le prime dieci al mondo, non se la cava di certo con soluzioni uniche: noi dobbiamo avere un mix energetico molto strutturato. Certamente, per via della transizione ecologica, dovremo ridurre le sorgenti fossili: il carbone lo stiamo mandando in pensione molto rapidamente, più degli altri, mentre il gas al momento è irrinunciabile, ma dovrà avere anche lui una curva di decrescita, a parte la guerra che da questo punto di vista ci ha messo un po’ in imbarazzo… In questo processo le fonti rinnovabili giocheranno un ruolo fondamentale, ma non credo che da sole potranno alimentare un paese delle dimensioni dell’Italia, con i consumi dell’Italia, perché serve una rete di un certo tipo per gestire i flussi discontinui, servono gli accumulatori e comunque è dura pensare di mandare avanti i grandi distretti industriali con eolico, solare e così via. Io spero che in futuro questo Paese capisca l’importanza dell’innovazione e sono convinto che le tecnologie nucleari di nuova generazione saranno una parte della soluzione, anche se nessuna di queste tecnologie avrà l’esclusiva. Purtroppo, se noi non saremo in grado di diversificare, rimarremo sempre dipendenti da una sola o due sorgenti e questo automaticamente ci renderà più deboli. La diversificazione in campo energetico è fondamentale.

L’energia geotermica, che oggi soddisfa una piccolissima porzione del nostro fabbisogno, è pulita, rinnovabile e, ad avviso di molti, ha grandi potenzialità. Lei ritiene che potrà avere un ruolo importante tra vent’anni?

La geotermica è destinata a crescere, ma non è che potrà fare più di tanto. È una fonte d’energia che dipende da molti fattori, dalle caratteristiche geologiche e dalla disponibilità delle aree. Sicuramente la si deve potenziare al meglio delle nostre disponibilità: l’Italia è un paese vulcanicamente attivo, ci sono diverse zone che possono essere sfruttate, ma è in ogni caso difficile pensare che questa fonte di energia sia in grado di rispondere alle grandi necessità.

E, a proposito della fusione nucleare, dati i vantaggi che sembra promettere, lei ritiene che avremo una svolta in questa direzione? Pensa che il nucleare avrà un ruolo nel nostro (magari non troppo prossimo) futuro?

Ecco, la fusione sì che tra cinquant’anni potrebbe essere il silver bullet, la soluzione unica: d’altra parte tutto l’universo funziona a fusione, se pensiamo che le stesse stelle sono delle centrali a fusione. Con molto realismo, però, bisogna dire che ci vorrà parecchio tempo prima che siano disponibili tante centrali a fusione: con esse si produrrà energia sicura, pulita, illimitata e a un costo controllabile, ma ci dobbiamo arrivare… Intanto oggi, quando parliamo di transizione, non possiamo fare affidamento su un obiettivo così a lungo termine.

La sostenibilità ambientale produrrà nuove opportunità di lavoro. Verso quali ambiti i giovani di oggi dovrebbero orientarsi?

Nei prossimi vent’anni assisteremo a cambiamenti molto forti, soprattutto sul piano infrastrutturale, dove non è più concesso procrastinare. Per questo credo che molti dei lavori che si faranno tra vent’anni oggi non sono ancora immaginabili. Tante di queste occupazioni avranno a che fare con la sostenibilità ambientale: si tratterà di cambiare i modelli che non sono sostenibili, di trasformare le città. È il secolo della chimica, dovremo trasformare tutto, dai rifiuti all’energia; e poi è il secolo dell’ingegneria, della scienza dei materiali, della fisica, della logica, della matematica e della computer science.

Se lei oggi avesse sedici anni, che lavoro vorrebbe fare a vent’anni?
Se avessi sedici anni credo che, come in questa vita, studierei materie STEM. In Italia c’è bisogno di trentamila, trentacinquemila STEM nei prossimi dieci anni; probabilmente, com’è successo quando ero giovane, seguirei la corrente.

Sarebbe d’accordo con l’estendere il diritto di voto ai sedicenni?
Sono padre di tre figli, per me si potrebbe estendere anche a ragazzi più giovani, hanno idee forti. Ho un dubbio, però, che riguarda l’effetto deleterio dei social soprattutto nei ragazzi: se un milione di persone dice che due più due è uguale a cinque, allora tutto si convincono sia vero, nonostante due più due continui a fare quattro. Allora sì, io sarei d’accordo con l’estendere il diritto di voto ai giovani, a fronte però di un correttivo, assegnare un prezzo ai post. I social sono veicoli che corrono sull’autostrada digitale e non c’è motivo perché debbano essere gratuiti; quando un prodotto è gratis il motivo è che il vero prodotto sei tu, utente. Dovrebbero votare subito i giovani, però ci vogliono delle regole sulla cognizione sociale, sull’intelligenza collettiva.

Come immagina che potrebbe funzionare il mercato dei post?
Comincerei a fare una riflessione sul fatto che se vuoi camminare sull’autostrada digitale devi pagare un centesimo per tot di byte che mandi in giro, cosa che, probabilmente, rinormalizzerebbe il meccanismo che, essendo ora gratuito, non implica nessuna responsabilità. Una volta inserite queste regole, allora sì che mi fiderei moltissimo dei giovani. I ragazzi, oggi, sono un po’ manipolati da loro stessi, la nostra società sta entrando in un deficit di capacità cognitiva impressionante.

Il problema è l’algoritmo?
Il deficit cognitivo dipende dal fatto che il social è diventato, ormai, un’intelligenza collettiva. Nel momento in cui non usiamo alcun filtro, in cui ciò che diciamo è coperto da anonimato, non ci mettiamo la faccia né il nome, contano soltanto i numeri e in più l’algoritmo seleziona solo ciò che è conforme a quello che pensiamo e vogliamo vedere, si crea una polarizzazione cognitiva devastante. Se io dico “mi piace l’azzurro”, riceverò prevalentemente messaggi che fanno vedere l’azzurro e, quindi, mi convincerò del fatto che la realtà sia azzurra. L’unico modo per interrompere questo meccanismo è far pagare.

Qual è il prezzo della transizione ecologica per i paesi più poveri? E quale il rapporto tra innovazione tecnologica e disuguaglianze?

L’innovazione tecnologica rischia sempre di produrre un effetto elitario nelle società ricche, mentre il risultato atteso è in termini di vantaggi anche per le società più deboli. Su otto miliardi di abitanti, più di tre non hanno accesso sicuro all’energia elettrica, all’acqua e così via. Mentre il 40% degli esseri umani non ha l’elettricità, la preoccupazione della parte privilegiata del mondo è mantenere l’aumento della temperatura sotto un grado e mezzo nella seconda metà del secolo. Parliamo di transizione ecologica come di un problema globale, ma dobbiamo renderci conto di come essa cambi significato a seconda del punto di vista... Noi possiamo fare cose magnifiche in Europa, elettrificare, decarbonizzare, però non possiamo chiudere gli occhi e condannare al declino, a morte, miliardi di persone nei paesi meno sviluppati. 
Poi vi sono paesi che si trovano in una situazione ancora diversa; pensiamo alla Cina, all’India, in parte alla Russia, che stanno accelerando sulla transizione ecologica anche se non sono ancora “puliti” come l’Occidente. Questo è un mondo a tre velocità, come minimo, mentre la transizione ecologica pretende una velocità uguale per tutti: c’è qualcosa che non va. Se permangono le disuguaglianze la transizione ecologica non funzionerà e l’innovazione avrà fallito.

L’innovazione tecnologica può essere orientata anche in senso democratico, però dipende da come la si applica e dalla ricerca, che a sua volta è condizionata da chi la finanzia. Viene naturale, quindi, interrogarsi su come stia cambiando, in questo ambito, l’assetto del rapporto pubblico-privato?

A livello internazionale tutti si sono resi conto che la ricerca pubblica finanziata dagli Stati non può bastare e che, quindi, serve un’interazione pubblico-privata estremamente forte. Alla UN Climate Change Conference (COP 26) che si è tenuta a Glasgow a novembre, si è addirittura parlato di trillion based effort, ovvero di mille miliardi di capitali privati che dovrebbero confluire su filoni di sviluppo, ricerca e innovazione che riguardano la transizione ecologica. È molto di più di quello che possono mettere gli Stati insieme… L’interazione tra pubblico e privati può essere una soluzione importante, ma dato che i privati, ovviamente, investono per il loro profitto, è necessario accordarsi molto bene: gli investimenti nella transizione ecologica, nella produzione primaria di energia, nella mobilità ecc., non devono diventare oggetto di speculazione finanziaria, perché l’obiettivo primario, oltre a quello di contenere i gas serra, deve essere anche quello di ridurre le disuguaglianze. C’è un taglio etico che deve essere necessariamente concordato tra parti pubbliche e parti private, altrimenti, come abbiamo già visto in altri settori, finirà per prevalere una logica finanziaria. E un errore del genere, soprattutto per la transizione ecologica, per il nostro futuro non ce lo possiamo permettere.