Un'età da inventare

Intervista all’Arcivescovo Vincenzo Paglia, Presidente della Pontificia Accademia per la Vita

Di Ginevra Leganza

17 novembre 2022

In un passaggio della Genesi leggiamo: “Il mio spirito non resterà sempre nell’uomo perché egli è carne e la sua vita sarà di 120 anni” (Genesi 6:2-4). Nel suo libro parla di “età da inventare”. Come vivere questi anni in più?
In effetti oggi viviamo venti o trenta anni in più. Il progresso tecnologico, dell’igiene, di una convivenza più articolata e meno problematica, facilita l’allungamento della vita, che poi in realtà è l’allungamento della vecchiaia. Il problema è che questi anni in più sono privi di pensiero. 

Cosa intende?
Voglio dire che magari sono supportati dalla tecnologia. Ma come ci ha mostrato la pandemia, esiste la mancanza di un supporto tecnico che aiuti la vita dei nostri anziani. Molti sono morti nella disperazione, senza nessuno, senza poter essere aiutati. In quel versante la tecnica è stata sconfitta. Il vuoto da colmare è un vuoto di politica, di pensiero, di cultura. Ma anche di spiritualità. Viviamo tanti anni in più e non sappiamo perché e per cosa, in questo senso è un’età da inventare. 

Cosa possiamo inventare?
Se ci pensiamo, dagli 0 ai 30 anni ci siamo inventati tutto: l’asilo, la materna, le elementari, le medie, il ginnasio, il liceo, l’università, la specializzazione… Abbiamo riempito almeno 25-27 anni della nostra vita. E dai 70 ai 90/100 anni? Il vuoto. Sì certo, esistono le università per gli anziani, ma non è abbastanza. Abbiamo la responsabilità di inventare come vivere questi lunghi anni senza sprecarli, senza condannarci alla solitudine, all’abbandono o allo scarto. A mio avviso questa rappresenta una delle più grandi sfide del ventunesimo secolo. Insieme al fenomeno delle migrazioni, quella della vecchiaia è la grande sfida umanistica che abbiamo davanti a noi.

Quando si diventa anziani si diventa scomodi?
Vede, il più grande nemico della vecchiaia è l’idea che noi ne abbiamo. Non solo per la lunghezza ma anche per la qualità di questi anni, è indispensabile ricollocare questa età anche e soprattutto da un punto di vista giuridico. La Commissione creata dal Ministro Speranza, che ho presieduto, ha redatto una carta per i diritti degli anziani e dei doveri della società. In un’epoca di ubriacatura dei diritti individuali, qui vi è una sottolineatura dei diritti di una generazione di anziani ma anche dei doveri della società verso di loro... Per coglierne la necessità, mi permetta di illustrarle qualche cifra.
 
Prego.
Oggi gli ultra 75enni sono 7 milioni, di questi 7 milioni 2.7 non sono autosufficienti; 1.3 milioni non riceve nessun tipo di aiuto, 200.000 vivono con 600 euro al mese; 570.000 vivono in palazzi senza ascensore. Gli unici accuditi ufficialmente sono 280.000 nelle RSA o nelle RA, ovvero un decimo di tutti quelli che hanno bisogno. Sentiamo l’urgenza di cambiare totalmente il paradigma, la società deve prendersi cura di tutta la sua popolazione anziana e rispondere ai suoi bisogni man mano che si presentano, partendo per esempio dalla loro abitazione. Io credo che sia civile e religiosamente doveroso che ogni anziano possa vivere laddove da sempre vive e finire lì i suoi giorni. Ecco perché questa carta dei diritti è corredata, oltre che da principi, da spiegazioni concrete, da esperienze concrete dei singoli diritti. L’Italia, dopo il Giappone, è il paese più anziano del mondo. Questo progetto, se realizzato, può essere davvero di grande aiuto e di insegnamento all’Europa — e non solo — su come considerare e accompagnare i suoi anziani.

Lo sviluppo di centri diurni, di vere e proprie scuole per l’anzianità, aprirà nuove possibilità di impiego ai giovani di oggi. E le aprirà soprattutto nei piccoli comuni, con auspicabili effetti sul rapporto tra centri urbani e territori. Nel suo ultimo libro lei parla di centomila posti di lavoro. Ci può dire di più?
Sì. Il 70% degli anziani italiani vive in comuni da 60 mila abitanti in giù; 2 milioni e mezzo vivono in comuni da 5.000 abitanti in giù. I nostri piccoli paesi vedono i giovani allontanarsi e gli anziani restare soli e abbandonati. Non perché non abbiano energie per prestare servizi alla società, ma perché nessuno li prospetta loro. Parlando con le Confocooperative mi sono reso conto che loro hanno 800.000 pensionati. Questa gente può ancora donare moltissimo, ma purtroppo la legge del pensionamento, che a mio avviso andrebbe ripensata, non lo permette. Vi è una generazione in più per cui si dovrebbe ripensare il senso del lavoro e quindi anche della retribuzione. Ma penso anche al problema dei neet. 


Ovvero? 
Ovvero i giovani non impiegati che né studiano né cercano lavoro. Se riuscissimo a comporre la condizione e il numero degli anziani soli (molti dei quali artigiani) nei paesi, potremmo prevedere l’assunzione di almeno 100.000 operatori sociosanitari specializzati, potremmo incrociare i due dati e ridare non solo un rafforzamento al tessuto sociale, ma anche a una Italia produttiva. Quanti di questi artigiani, poi, trasmetterebbero il proprio sapere ai più giovani? Se gli anziani hanno un bagaglio di esperienza, i giovani hanno un bagaglio tecnologico che gli anziani non hanno. Ecco perché la Commissione prevede la creazione di almeno 1.000 centri diurni in tutta Italia. Non si tratta di nuovi palazzi o nuove costruzioni, ma di luoghi pubblici già esistenti che possono essere ristrutturati e diventare luoghi dove gli anziani possono andare ogni giorno. Luoghi dove si possa anche fare scuola.

Che tipo di scuola immagina?
Le faccio degli esempi. L’estate che viene sarà molto calda. Lei sa che il caldo per gli anziani è deleterio, ad aprile, maggio si faranno lezioni su come comportarsi quando arriverà il caldo. Non possiamo fare lezioni sulla dieta? Su come essere attenti a non cadere? O su quello che sta accadendo nel mondo, per esempio? E non possiamo fare lezioni anche tra giovani e anziani insieme? Saranno luoghi per la riabilitazione, dove la telemedicina potrà espandersi in modo significativo. Questi centri possono essere pensati come scuole che favoriscano la prevenzione alle malattie. Il che implicherebbe un risparmio di miliardi dal bilancio dello Stato, soprattutto dalla sanità. Se la metà di quei 2.7 milioni di anziani venisse istituzionalizzata, salterebbe il bilancio dello Stato. Ma se si stesse meglio e si spendesse meno, sarebbe una conquista.

Intergenerazionalità. Può essere un punto di partenza per il superamento della cultura dello scarto?
Per la prima volta nella storia, oggi, è nata una quarta generazione. Noi la chiamiamo terza, ma ci sbagliamo. I numeri stanno crescendo verso l’anzianità e purtroppo decrescendo verso l’infanzia. Supponendo che ogni generazione sia un piano, oggi siamo in un palazzo di quattro piani più o meno abitato. Purtroppo in questo palazzo spesso mancano le scale e gli ascensori. È un problema soprattutto per la prima e l’ultima generazione. 

Perché? 
Perché la prima e l’ultima generazione, a differenza delle altre due, possono vivere solo se aiutate. Non intendo dire che le due di mezzo non abbiano bisogno di aiuto… Tutti abbiamo bisogno di aiuto. Ma per i bambini e per gli anziani è più evidente. E la scienza non è il padre eterno. I bambini senza i genitori non vivono. Gli anziani senza aiuto muoiono. Ecco perché io sono convinto che un’alleanza tra i due estremi aiuti a far comprendere che anche i due piani di mezzo hanno bisogno di aiutarsi e di aiutarci. L’illusione maggioritaria che l’ideale della vita sia la giovinezza ci fa perdere di vista la strada da percorrere. La tragedia della crescita dei suicidi nell’età giovanile ci dovrebbe rendere consapevoli che il problema è un altro. È quello dell’aiuto vicendevole tra tutte le generazioni, per poter vivere in una maniera umana.

La robotica per gli anziani può rappresentare una opzione in diversi setting assistenziali?
La tecnologia è un grande dono. Ma se noi la trasformiamo in onnipotenza o in onnipotente, bruciamo tutta quella dimensione affettiva che la tecnologia non può avere. La tecnologia è per sua natura anaffettiva. Gli algoritmi sono numeri, non può nascere l’amore tra l’1 e il 2 o tra il 6 e il 7. La dimensione affettiva, propria della tradizione ebraico-cristiana, è profondamente umanistica. Per noi la carne è una cosa seria, il corpo è una cosa seria. Insomma, non è la prigione dell’anima! Io posso pure avere dei robot in casa, ma un abbraccio o una carezza un robot non me lo può dare. La prima volta che ho sentito dire “Siri accendi la luce” ero a casa di un mio amico prete e lì ho pensato che la dimensione della gamma affettiva è cruciale. In alcune filosofie dell’estremo oriente non esiste la dimensione dello spirito e della carne, e per loro lo spirito è anche nel computer. Ecco, il rischio è che prevalga questa dimensione. Un famoso scienziato giapponese, che si è costruito il suo clone, una volta mi ha detto che siamo l’ultima generazione organica e che la prossima sarà inorganica. Sono dell’idea che la tradizione europea, nella tecnologia come nell’intelligenza artificiale, sia cruciale. Senza l’Europa, la tecnologia planetaria rischia una deriva drammatica.


Il pensiero europeo come argine a una deriva tecno-religiosa? 
Martin Heidegger scriveva che solo un Dio ci può salvare. Eppure il Filosofo non parlava del Dio cristiano, ma dell’umanesimo. Solo l’umanesimo ci può salvare e rendere la tecnologia uno strumento straordinario per nuovi umanesimi. La carezza è la carezza di una mano umana, non di un robot. Quella di un robot mi fa paura, mentre quella umana mi fa pensare a un futuro che voglio costruire.

Come immagina il futuro dell’Europa fra vent’anni?
Parlare del futuro del Pianeta senza l’Europa è un problema enorme. I 4.000 anni di umanesimo che ci hanno permesso di diventare planetari non possono essere dimenticati o frenati. Io ho questa paura. Vedo un’Europa a due velocità. La tecnologia avanza in maniera spaventosa mentre l’umanesimo avanza lentamente. Per questo motivo la Pontificia Accademia per la Vita, con l’aiuto della Fondazione Leonardo, sostiene l’indispensabile dimensione etica, educativa e giuridica sull’intelligenza artificiale proprio per evitare derive drammatiche. In questo senso l’Europa deve fare uno sforzo in più. Alla fine di maggio andremo ad Abu Dhabi per far firmare una room call in materia di etica e di diritto intorno all’intelligenza artificiale, insieme a ebrei e mussulmani. È la prima volta che le tre grandi religioni monoteiste si ritrovano insieme a firmare un documento su questa tematica. La prossima tappa sarà Hiroshima, dove vorremmo coinvolgere il Giappone e le altre religioni per sostenere questa dimensione. Credo che sia importante che questa room call venga presentata anche alle università. È fondamentale che ci sia una materia che si occupi della dimensione etica e giuridica dell’intelligenza artificiale. 

Parlando di umanesimo, e quindi di uomo, in Italia facciamo sempre meno figli. Che rapporto intercorre fra demografia e flussi migratori?
Come dicevo all’inizio, insieme al tema dell’invecchiamento, il tema delle migrazioni è l’altro grande tema. Non possiamo eluderlo, anche perché riguarda il mondo intero. In Europa siamo allarmati più del dovuto. Le faccio un solo esempio; nel nord dell’Uganda ci sono diversi campi profughi, uno è composto da 500.000 persone. L’Uganda non è né l’Italia né l’Europa. Se in Italia arrivano più di 10.000 persone il governo rischia di cadere. Il fenomeno va governato, certo, perché è molto complesso: richiede l’aiuto dei paesi d’origine, di evitare che si finanziano le guerre, che si finanzino i paesi che sono segnati dalla fame, dai conflitti etnici. Di fronte alla crisi demografica italiana ed europea, sarebbe intelligente fare una politica d’immigrazione anche in questa prospettiva. 

In che termini?
Per fare un bambino ci vuole certo un’ora d’amore, ma ci vogliono nove mesi per farlo crescere, e diversi anni perché diventi adulto e quindi produttivo. Perché non pensare anche ai bambini e ai ragazzi immigrati? A Trastevere vedo bambini di colore che parlano romanesco meglio di me, cantano l’inno di Mameli con un trasporto che io — giovane sessantottino — faccio fatica a comprendere. Esiste un’intera generazione di bambini e di giovani italiani di altro colore. Perché non pensare che un’accoglienza anche politicamente attenta possa essere un volano di recupero della crisi demografica? C’è poi il problema degli scarti e delle disuguaglianze… 

Cosa determina quest’ulteriore problema? 
È il problema la crescita del mercato senza anima di fraternità. Ed è quanto ha portato a squilibri enormi. Queste disuguaglianze, interne alle nostre società e tra i popoli, sono pericolosissime. Nessuna disuguaglianza è ingenua. Le famose tre parole della modernità — libertà, uguaglianza, fraternità — sono messe male. Abbiamo sempre sostenuto che la propria libertà termina dove inizia quella dell’altro. Con il Covid-19 non è stato vero. Un essere insignificante, invisibile, parassita, si è fatto il viaggio da Wuhan sino in Germania per poi arrivare a Codogno. Dov’è la libertà? Ci siamo inventati le mascherine non solo per difendere noi stessi, ma per difenderci assieme. Ci siamo distanziati. Ma ancora, dove inizia e dove finisce la libertà? Oggi la libertà o è di tutti o non esiste. Allo stesso modo funziona l’uguaglianza. Il Presidente della Repubblica e il netturbino sono stati colpiti dalla pandemia alla stessa maniera. Ricordo quando nei primi mesi del lockdown qualche vigile urbano diceva ai barboni di andare a casa. Magari! Questo per dire come l’uguaglianza debba essere ripensata.... E poi la fraternità è scomparsa. 

E le soluzioni?
Dovremmo recuperare la dimensione della cura, del prendersi cura gli uni degli altri. Il mondo globalizzato è drammaticamente colpito perché non ha più visione, non sa dove andare e non sa che fare. Cerchiamo di mettere delle toppe ovunque. Questa visione della cura, però, non è del tutto scomparsa. La possiamo ritrovare nelle ultime due encicliche proposte da Papa Francesco, la Laudato Sì e la Fratelli Tutti. La prima ci ha descritto ciò che alla fine tutti abbiamo più o meno compreso: che il pianeta è la casa comune di tutti. Il mondo è un villaggio globale, si diceva negli anni settanta. Finalmente abbiamo capito che maltrattare il pianeta non conviene a nessuno. Oggi si apre una nuova ondata, quella delle nuove tecnologie emergenti e convergenti, che manipolano l’uomo più in profondità, non solo il clima. Papa Francesco dice che i popoli sono tutti fratelli tra loro, come anche le chiese, come anche le religioni, ma questo traguardo è ancora debole… Dobbiamo spingere l’acceleratore verso un’unica casa comune abitata da un’unica famiglia. Poi è chiaro che si bisticci, tra fratelli si litiga… Ai genitori si disobbedisce. Però non ci si ammazza. Siamo uniti di fatto. Questa visione deve diventare una scelta politica, economica, spirituale e anche culturale. È un grande lavoro, ma siamo qui per questo. Un grande sapiente ebreo diceva Se vuoi cambiare il mondo inizia a cambiare il tuo cuore.