Una virtù politica

10 marzo 2022

Di Chiara Cappelletto

L’alleanza tra istituzioni e cittadini costituisce una condizione imprescindibile per la salute del regime democratico del paese. Questa alleanza altro non è che l’espressione di una fiducia reciproca, che si costruisce e si corrobora grazie ai discorsi, alle argomentazioni, ai ragionamenti tenuti pubblicamente da figure autorevoli per persuadere individui e gruppi su questioni di rilievo collettivo. La sua efficacia si dimostra sul piano pragmatico, quando è capace di indirizzare le azioni che ciascuno di loro mette poi liberamente in atto. Così, in teoria. Ma nella realtà? 
Un’affermazione simile sembra a prima vista più adatta a introdurre un saggio sull’argomentazione che non a descrivere come le persone si comportino davvero. Per il senso comune, infatti, vale l’idea che la fiducia è una questione affettiva, privata, intima. Ci fidiamo – anche contro ogni ragionevole evidenza – della cerchia degli amici e dei familiari, ovvero di persone note, mentre riteniamo saggio diffidare degli estranei e di quanto gli estranei ci dicono, soprattutto se detengono una posizione di potere; alla peggio ne subiremo le decisioni, ma sarà per causa di forza maggiore. Ciò vale soprattutto nell’ambito della cura di sé e meno in quello professionale o scientifico – saremmo ancora allo stadio del baratto – ed è tanto più cogente quanto più familistica è la società in cui si manifesta. Resta però che, con intensità diverse, essa agisce con costanza e apparente ovvietà. Non si accettano caramelle dagli sconosciuti. 
Dal punto di vista dei processi di costruzione pubblica di un sapere condiviso, i quali si fondano sull’attendibilità degli interlocutori, uno dei fenomeni più interessanti di questi ultimi due anni pandemici è stato l’ibridazione dei due piani che ho menzionato: il discorso autorevole deve essere ufficiale e provenire da figure terze, ma l’interlocutore deve poterci parlare come la persona affabile della porta accanto. Non si tratta affatto di una novità assoluta. Piuttosto, la necessità di ottenere rapidamente conoscenze sofisticate e indisponibili che hanno effetti immediati sulla nostra vita quotidiana ha amplificato da un lato la tradizionale e supina reverenza per “il professore” e dall’altro il non sequitur, più recente, per il quale siccome siamo tutti parimenti ignoranti siamo tutti parimenti attendibili. Che Zoom ci abbia fatto entrare nei salotti, negli studi e nelle cucine dei più sconosciuti medici, ha favorito il processo di familiarizzazione digitale con lo specialista di turno. 
Dalla spirale infodemica cui partecipiamo dal 2020, dalla diffusione ininterrotta e nervosa di informazioni contradditorie su virus, vaccini e politiche sanitarie, è emerso vittorioso l’Esperto, al quale chiediamo più risposte di quante possa umanamente dare. Preferibilmente uomo e di mezza età inoltrata, l’esperto parla rigorosamente da solo al pubblico televisivo diventando sera dopo sera “un vecchio amico”; dà sostanza ai suoi argomenti enunciando prove alla cui veridicità possiamo solo credere, perché non sappiamo o non possiamo trovare i dati sperimentali che cita, e ci fidiamo perché mostra il braccio su cui lui per primo si è fatto inoculare il vaccino; ci fidiamo perché piange sinceramente per i pazienti che non ha potuto aiutare ed è mesto quando predice il numero di morti a venire. 

(Copertina) It calls me on, Lucianella Cafagna, 2021, olio su tela. (Sopra) Una giornata al mare, Lucianella Cafagna, 2021, olio su tela

Da sempre chi parla ha potuto guadagnarsi l’assenso del proprio uditorio sollecitandone le menti e manipolandone cuore e viscere. Aristotele arrivò a chiedersi se fosse meglio dire la verità, dando l’impressione di mentire, o mentire, dando l’impressione di dire la verità. Da sempre, tuttavia, si è potuto distinguere tra buoni argomenti e propaganda discriminando tra prove e suggestioni, dati di fatto e carisma personale. Questa discriminazione è quanto separa la fiducia come credito personale che si concede a chi ci piace, dalla fiducia come certezza condivisa, terreno di negoziazione e, infine, virtù politica. Per costruire una certezza condivisa, occorre che le persone abbiano il tempo per verificare le informazioni e discuterle, obiettare e concordare, fondando la rispettiva credibilità. In caso contrario, si tratta di scommettere a favore o contro una posizione, e così correre il rischio di perdere, o credere all’infallibilità magica di chi ci consiglia, e neutralizzare in tal modo il rischio di sbagliarsi. Le due posizioni sono sì di natura opposta, ma manifestano entrambe diffidenza per scelte discusse e condivise. 
Perché la fiducia funzioni come attitudine pragmatica, perché i cittadini possano concordare o dissentire senza timore, avere o meno determinati comportamenti, occorre abbiano il tempo di sperimentare insieme idee, argomenti e soluzioni. La fiducia come virtù politica non risulta infatti immediatamente dalla correttezza puntuale con cui ci viene comunicata un’informazione o dall’adeguatezza di una condotta individuale, ma dal ripetersi di quella correttezza e di quella adeguatezza, che devono rivelarsi buone per noi. Perciò il cosiddetto “fact checking” e la diffusione di notizie corrette sono necessarie ma non sufficienti. Non esiste alcuna conoscenza logica o formale che basti a guidare le nostre scelte personali o collettive. Che sia così è confermato dallo stato dell’arte del discorso pubblico odierno; per dirla con una formula, dal terrapiattismo, dal complottismo, e dagli inutili sforzi per smontarli. Senza fiducia, la ragione è sterile. 
Certo, la fiducia non è l’unica virtù su cui una comunità si debba o si possa basare, e per alcuni versi il suo aspetto mediato, il fatto che risulti da un accordo che va sempre rinnovato, non la rende la più eroica. È una virtù modesta, silenziosa, apparentemente di poche pretese. Fidarsi è anche un atto di semplice cortesia. Tuttavia, quando viene meno, i danni sono terribili: la legge diventa discriminazione, la scelta sopruso, il rispetto opportunismo. Ne risulta un’involuzione sociale che porta a tribalismi e partigianerie. Vale allora la pena spendere alcune parole per ricordarne i tratti più gioiosi, più alti e nobili. 
Nel mondo che ci aspetta, e che è già iniziato, essa va di pari passo con almeno due delle più belle e democratiche conquiste della conoscenza: la prima è che ciascuno di noi partecipa a una mente collettiva, la seconda è che il sapere ha una natura multidisciplinare. Non esiste “esperto” senza altri che studino prima di lui e con lui. Non esiste disciplina che possa rifiutare le altre se non vuole perdere la propria capacità euristica. È la ricerca stessa – che sia nell’ambito delle scienze dure, della vita, o di quelle umane e sociali – a basarsi sulla fiducia reciproca dei suoi attori: la richiede e la provoca lungo tutto il processo, dallo studioso in biblioteca o in laboratorio fino al collega e al cittadino curioso. Il ricercatore, che è l’antitesi dell’esperto vaticinante, è colui che per primo si fida con cura – e scrupolo – di ciò che gli altri sanno. Si fida dunque anche di chi è più giovane, e che perciò sa non di più, ma altro e diversamente. Se le persone comuni possono accogliere gli argomenti che vengono loro proposti e agire di conseguenza, è perché a loro volta essi sono il risultato di un lavoro collettivo. 
Capire come si produce quella conoscenza cui tutti noi a diverso titolo partecipiamo, significa capire il potere creativo della fiducia e la sua capacità di creare collante sociale. È una comprensione che andrebbe favorita in questo paese anziano e guardingo, così da alimentare in modo giustificato quell’alleanza tra figure che si vogliono autorevoli e i cittadini, decisiva per la buona tenuta del paese.