11 marzo 2021
Sul numero di agosto-settembre 1951 di Rinascita Roderigo di Castiglia, nom de plume di Palmiro Togliatti, ironizza sull’uscita dal partito di Elio Vittorini. Scrive infatti, adattando una canzone napoletana: “Vittorini se n’è ghiuto e soli ci ha lasciato”. Che un po’ fa il paio con una celebre battuta cara ai sudditi di Sua Maestà britannica: “Tempesta sulla Manica, il Continente è isolato”.
A differenza di Vittorini, Nicola Zingaretti non si è sognato di lasciare il partito. Ha semplicemente rassegnato le dimissioni da segretario del partito. Avanti un altro, verrebbe da dire, visto e considerato che i segretari del Pd entrano ed escono di continuo come se il partito fosse un albergo dalle porte girevoli. Ma allora dov’è la novità? A ben considerare, ce ne sono a bizzeffe. Prima di tutto, la comunicazione delle dimissioni è a dir poco anomala. Macché lettera e lettera: il tutto via facebook.
Inoltre, uno come Zingaretti, che fino a un minuto prima era al vertice del partito, non trova di meglio che sparare sul quartier generale. E mica a salve ma con palle infuocate. Dei suoi compagni di avventura o – per meglio dire – di sventura, dice cose terribili. Sostiene che sono dei poltronari, sempre a caccia di cadreghini perfino in un momento in cui il Coronavirus imperversa. Sottintende che il partito più che diviso in correnti, nobilitate da un particolare indirizzo politico, si disarticola in fazioni, in lotta per il potere. Pirati di mari poveri, ma questo è valido un po’ per tutti i partiti, direbbe il compianto Pompeo Biondi, il Maestro di Giovanni Sartori alla Facoltà fiorentina di Scienze politiche “Cesare Alfieri”.
Perciò dimissioni per qualche verso drammatiche perché volutamente drammatizzate da chi le ha date. Non so a voi, ma al sottoscritto non vengono in mente episodi di tal genere nella storia dell’intero dopoguerra. A pensarci bene, però, qualcosa ci sovviene. Tutti ricorderanno con quale veemenza Aldo Moro, prigioniero delle Brigate Rosse, si scagliò contro l’intero arco politico, ma prendendo particolarmente di mira il proprio partito, al quale non risparmiò nulla. Certo, la differenza tra i due episodi è abissale. Zingaretti le cose terribili che ha detto le ha pronunciate senza costrizione alcuna. In piena libertà e ben consapevole di quanto andava dicendo. Moro invece era piegato dalla tensione psicologica derivante dall’essere nelle meni dei suoi carcerieri. Perciò è difficile giudicare fino a che punto le sue parole fossero sincere.
(Copertina) ritratto di Elio Vittorini. (Sopra) Aldo Moro
Ma torniamo a Palmiro Togliatti. Per dirla con Indro Montanelli, il Pci era paragonabile a un convento. Ora et labora, zitti e mosca. Adesso si rivolterebbe nella tomba. Perché i suoi nipotini, più o meno degeneri, assomigliano a una associazione di filosofi peripatetici dove ognuno se ne va per conto proprio. Ognuno per sé e chi si è visto si è visto. O tempora o mores, direbbe Barbapapà Eugenio Scalfari, che pure in vita sua ne ha viste e fatte tante.
Non è tutto. Il teatrino della politica, come gli esami per Eduardo, non finisce mai. La cosa davvero stupefacente è la reazione dei dirigenti del Pd, presi a male parole senza tanti complimenti. Hanno forse inveito nei confronti del segretario dimissionario? Gliene hanno dette quattro? Lo hanno per caso mandato a quel paese o – è lo stesso – a farsi benedire? Macché. Come un sol uomo, tutti hanno pronunciato una sola parola: “Ripensaci!”. Cose da non credere. Ma forse un “ripensaci” dettato dalla cattiva coscienza di un pugno d’uomini indecisi a tutto. Fatto sta che dopo le dimissioni di Zingaretti il Pd ha perduto due punti tondi ed è stato scavalcato da Fratelli d’Italia, in costante ascesa.
C’è un precedente in tal senso. Il 22 aprile 2013 Giorgio Napolitano, appena rieletto alla suprema magistratura dello Stato, ne dice di cotte e di crude a coloro che lo avevano eletto. Non gliene perdona una. E costoro, come se niente fosse, colmano di applausi il loro tormentatore. Certo, Zingaretti ha commesso errori. Il problema non è l’alleanza con i pentastellati in sé e per sé, ma piuttosto è di come starci. E la goccia che ha fatto traboccare il vaso è stata quando il segretario salutò come federatore dell’intera sinistra un Giuseppe Conte che Grillo stava per incoronare al vertice del M5S.
Tuttavia, può consolarci un episodio che risale alla prima legislatura repubblicana. Nella tribuna stampa di Montecitorio a un certo punto Leo Longanesi dà di gomito a un amico e gli sussurra: “La vedi questa gente qua? Verrà un giorno che ci toccherà rimpiangerla”. Zingaretti non è di sicuro paragonabile a quei giganti. Ma, visto quello che passa il convento, forse ci toccherà rimpiangere pure lui. Uomo e galantuomo. A riprova, se mai ve ne fosse bisogno che – Draghi o non Draghi – questo sistema dei partiti ci appare febbricitante.