di Claudia Fiasca
Creatività, saper fare, autostima e felicità. Psichiatra e scrittore, Paolo Crepet parla dei pericoli e delle opportunità per la scuola e il mondo del lavoro partendo da un assunto: «la manualità permette all’uomo di avvicinarsi alla percezione felice del sogno e di trasformarlo in qualcosa di tangibile».
Il sociologo americano Richard Sennett sostiene che la civiltà occidentale ha sempre avuto un’innata difficoltà nel ricollegare mano e testa, nel riconoscere e incoraggiare la maestria tecnica. In un’epoca di transizione come la nostra, viviamo una “crisi fisica” che ci spinge sempre più verso quella deriva astratta che il digitale sembra implicare. Davanti a tale prospettiva come possiamo ritornare alla manualità?
Il vero confronto è tra una forte potenza economica, quella tecnologica, la cui persuasività si riflette anche dal punto di vista del marketing e della pubblicità, e la manualità, la cui forza economica e persuasiva non è comparabile. Ecco perché l’artigianato sembra aver apparentemente perso questa sfida. In realtà molti degli oggetti che fanno parte del nostro quotidiano sono ancora fatti a mano e dovranno continuare a esserlo poiché, quando la tecnologia prevarrà, il mondo dovrà far fronte a un problema non da poco, ovvero la perdita di molti posti di lavoro. Sostituire la manualità con la robotica, infatti, significa essenzialmente sostituire milioni di lavoratori. Ciò rischia di essere un fattore di grandissima sperequazione sociale anche dal punto di vista geopolitico perché non tutti i paesi possiedono una vocazione tecnologica.
Nell’era dell’automatismo tecnologico e dell’intelligenza artificiale sembra che il binomio homo faber/animal laborans sia stato soppiantato da quello macchina/uomo. Quale mediazione si può operare per valorizzare il saper fare?
È necessaria innanzitutto una mediazione culturale che deve essere condotta fin dai primi anni della formazione scolastica. Se crediamo nel valore della manualità, connesso al concetto di creatività, non possiamo riempire la scuola primaria di device. Se i bambini non sono più liberi di essere creativi perché iperconnessi, è chiaro che fisiologicamente sceglieranno la tecnologia in mancanza di un’alternativa. Non si tratta solamente di una questione ideologica ma occorre domandarsi quale essere umano vogliamo. Vogliamo un essere umano che utilizzi i cinque sensi, oppure no? Questa è già una scommessa formidabile: perché se la risposta è affermativa bisogna che si istruisca alla manualità fin dall’infanzia, così come è accaduto in passato.
(Copertina) L’artista Nicole Voltan al lavoro. Foto di Giorgio Coen Cagli. (Sopra) Grande pressa a fucinare delle Acciaierie di Terni, disegno di Elvio Chiodi a corredo dell’articolo “I ragazzi di Grottamurella alle Acciaierie di Terni”, in “Civiltà delle macchine”, 2/195
La DAD ha obbligato i ragazzi a una lontananza forzata dagli spazi adibiti alla pratica, come ad esempio i laboratori, la cui importanza è stata più volte ribadita dal mondo dell’impresa. Quali passi ritiene si debbano intraprendere per poter ristabilire il primato del saper fare?
La locuzione “saper fare” è molto generica, potrebbe anche significare saper usare un computer, dunque non rimanda necessariamente alla manualità. Se un tablet diventa lo strumento fondamentale per l’istruzione nella scuola primaria, il saper fare si riferirà alla capacità di fare lo scroll per aggiornare la pagina. Tecnologia, creatività e manualità sono però alla base del made in Italy, è importante quindi costruire una visione, che non significa pensare a quello che dovremmo fare una volta finita la pandemia. Occorre, invece, avere il coraggio di attraversare alcuni grandi temi, come il rapporto tempo-lavoro e l’ambito della formazione, considerando il percorso scolastico nella sua interezza. In Italia abbiamo una scuola (molto) antica, basti pensare che qui la prima elementare inizia a sei anni, quando in gran parte del mondo comincia a cinque; la nostra scuola primaria è troppo breve mentre altrove dura sei anni. L’errore sta nel non prendere in considerazione una serie di evidenze come la precocità di un’evoluzione individuale dei bambini. Bisognerebbe avere il coraggio di fare una vera rivoluzione dell’organizzazione scolastica che metta sullo stesso piano la scelta umanistica e la scelta tecnologica. Da qui l’idea di chiamare tutte le scuole “licei” così da uniformare l’ultima parte della formazione che dovrebbe concludersi, a mio parere, un anno prima. I nostri figli stanno scontando un handicap: ovunque in Europa si esce dal liceo a 18 anni e questo comporta un vantaggio in partenza, che è legato solo all’organizzazione ministeriale.
Parliamo dunque di una trasformazione dell’istituto tecnico in liceo tecnico per valorizzare i percorsi formativi a partire dalle loro definizioni. Un’operazione semantica può concretamente orientare le future scelte scolastiche degli studenti?
Non si tratta di una soluzione cosmetica ma di un profondo cambiamento che interessa anche i curricula formativi. Il rapporto tra lavoro e formazione, ad esempio, è stato pensato soprattutto per gli istituti tecnici. Credo sia opportuno, invece, che uno studente del liceo classico vada a vedere un ospedale, un tribunale; se vale per la fabbrica non vedo perché non si debba fare lo stesso per un qualsiasi altro luogo di lavoro. Questo passaggio permetterebbe ai ragazzi di avere un’idea di cosa significhi stare in quel mondo. Altro errore che abbiamo nella scuola italiana – forse il peggiore – è il mismatching: formiamo dei ragazzi per lavori che non faranno, ma non abbiamo giovani formati per le professioni del futuro. Si dovrebbe monitorare maggiormente il mondo del lavoro per capire quale sarà l’offerta di domani, includendo ovviamente il processo di robotizzazione. È in atto un cambiamento copernicano anche grazie alla tecnologia: i giovani di domani dovranno inventarsi un lavoro, non cercarlo. La generazione futura sarà infatti datrice di lavoro di sé stessa.
Pressa da 600 tonnellate del reparto piccola fucinatura, disegno di Luciana Accettoni a corredo dell’articolo “I ragazzi di Grottamurella alle Acciaierie di Terni”, in “Civiltà delle macchine”, 2/1955
Nel marzo scorso a Torino il collettivo Rinascimento Studentesco ha portato in piazza alcune proposte, tra cui l’esigenza di una scuola che apporti un’educazione digitale, dal punto di vista tecnico ed etico, e di beneficiare della digitalizzazione delle scuole salvaguardando tuttavia la manualità e le relazioni virtuali.
L’errore macroscopico che potremmo fare è pensare che il biennio 2020-21 sia un punto di riferimento. Abbiamo vissuto un periodo tumultuoso da cui è doveroso uscire con un progetto per un mondo migliore. L’occasione che abbiamo può essere vantaggiosa se non si riparte dalla DAD o dallo smart working (che, in fondo, c’erano già prima in altre forme, basti pensare alle università a distanza). Occorre invece capire a che punto siamo con l’evoluzione tecnologica e digitale che ha subito un’accelerazione repentina davanti ai problemi emergenziali scaturiti dalla pandemia. Il problema è che i ragazzi sono consapevoli della dicotomia tra fisico e digitale, ma non hanno ricevuto alcun aiuto per poter ricucire questa ferita. Allora il “rammendo” necessario sta nel distinguere e non nel cercare compromessi. A scuola, secondo me, è più funzionale, nel processo di formazione, Google che Whatsapp o Facebook, eppure si tratta sempre di tecnologia. Sarebbe opportuna un’educazione all’uso della tecnologia. Proporrei il tema d’italiano e un esercizio di ricerca su Google, che non rientra certamente nell’ambito della manualità ma è propedeutico all’uso della tecnologia. Il rischio, altrimenti, è che i giovani considerino tecnologia unicamente i social network quando questi sono una tecnologia residuale perché riguardano solo alcuni aspetti non strategici della nostra vita. Saper condurre una ricerca su Google è strategico tanto quanto lo era, un tempo, la cultura enciclopedica dei nostri padri e dei nostri nonni.
Nel suo saggio “Impara a essere felice” (in “La fragilità del bene”, Einaudi, 2021) dedica un capitolo a “La manifattura della felicità” nel quale scrive: «Anche se burbero, un artigiano difficilmente è triste». Pensa si possa davvero invertire questa tendenza?
La ricerca della felicità parte dalla ricerca di autostima che si crea e si alimenta solo facendo, non pensando. L’autostima, che è colonna portante della vita, nasce dal fare, ecco perché un artigiano è potenzialmente una persona che vuole bene a sé stessa. Ciò, tuttavia, non è così immediato in altri ambiti professionali. Un artista, ad esempio, può ammirare il risultato finale del suo lavoro, ma – all’opposto – si pensi a un avvocato che saprà se ha vinto una causa cinque anni dopo, o a un politico che non lo saprà mai!
Favola siderurgica. Un ingegnere racconta ai ragazzi le avventure di una puntina per grammofono”, in “Civiltà delle macchine”, 2/1955
Le tecnologie digitali sono diventate un acceleratore delle dinamiche culturali, mentali e organizzative. Compito della politica e della società (intesa come comunità pensante) è creare opportunità. Creare le condizioni per cui siano gli stessi soggetti a condurre e governare il cambiamento
Se è vero che la manualità è l’essenza della storia è ancora possibile rifondare la figura di un Efesto moderno?
Se le macchine ci aiuteranno con le lavorazioni faticose e ripetitive, a differenza di quanto accaduto quando furono inventate – sono felice che non esista più quel Charlie Chaplin che stringeva bulloni a rappresentare un periodo di sfruttamento causato dall’industrializzazione –, si libererà allora uno spazio di tempo che potrà essere usato dal pensiero e dalle mani. Pensiero e mani, ecco l’anello di congiunzione tra liceo classico e istituto tecnico: entrambi costruiranno il futuro.
Qual è il suo auspicio, dunque?
Che si ripensi alla formazione dei giovani, si eliminino le differenze che determinano le scale sociali, le ingiustizie, la mancanza di diritti. Contrariamente a quanto si dice, oggi c’è una grande mobilità, e se si afferma il contrario forse è perché non si ricorda com’era il mondo del lavoro in passato. Le statistiche dicono che un ragazzo di oggi farà sette lavori nella sua vita, possiamo mai immaginare dall’età scolastica a quale di questi si starà formando? Ovviamente no. Il nostro compito però è di offrire una base formativa che sia il più equa e il più meritocratica possibile.
Una punzonatrice Johnstone in dotazione dell’officina navale della Navalmeccanica, disegno di Giuseppe Spadazzi a corredo dell’articolo “Da Amalfi a Castellammare. Visita ai cantieri dell’officina navale della Navalmeccanica di 5 ragazzi che vivono nella vecchia repubblica marinara”, in “Civiltà delle macchine”, 3/1954