Di Costanza Mayer
I licei sono gonfi di iscrizioni come la pancia delle rane. Gli istituti tecnici rinsecchiti, «e negli ultimi quattro anni assottigliati fino a immiserirsi così tanto da divenire luoghi di stazionamento per ragazzi dalla vita distratta e assonnata. La verità è che non abbiamo più aule disponibili nei licei e invece spazi enormi e vuoti nei luoghi dove si insegna la tecnica, dove si usano le mani». Cruda come sempre è la verità, la professoressa Eleonora Fragilenti, che insegna matematica in un liceo classico, illustra il vuoto e il pieno, gli insegnamenti che provocano distanza e sfiducia e quelli che invece sono divenuti calamita più per disperazione che per scelta.
«Tra di noi docenti, quando ne parliamo, spesso proviamo a immaginare la furbata: cambiamo nome, chiamiamoci anche noi licei così arrestiamo la decrescita!». Nel sorriso di Ivana Artisti che da un ventennio insegna al Pirelli di Roma, quartiere Tuscolano, un istituto tecnico apprezzato, con una reputazione tra le più alte della capitale e una formazione consolidata verso le materie commerciali e informatiche con anni di solide proposte formative, la declinazione verso il basso delle iscrizioni è uno dei problemi più acuti dell’ultimo quinquennio. «Si riducono le iscrizioni perché sull’istruzione tecnica non c’è stato alcun investimento, nessuna scelta politica né formativa. Svuotata dall’idea che almeno nel Centro-Sud il diploma desse accesso a un lavoro, la scuola secondaria di istruzione tecnica è divenuta nell’immaginario un parcheggio, una sorta di stazionamento dove si fa poco, dove si alloggia per consumare il tempo che separa i ragazzi dalla maggiore età. Questo il più grave fraintendimento perché da noi, parlo per me, si studia e pure parecchio».
Un miliardo e mezzo di euro ha promesso il premier Mario Draghi per rilanciare questo segmento scolastico e in cinque anni portare questo ceto medio del lavoro nelle fabbriche, nelle piccole aziende, nelle catene di vendita e distribuzione, al dettaglio oppure on-line. In Parlamento Draghi ha spiegato: «Particolare attenzione va riservata agli ITIS. In Francia e in Germania, ad esempio, questi istituti sono un pilastro importante del sistema educativo». I tassi di occupazione dei giovani che escono da questi ITIS sono altissimi, compresi fra l’80 e il 90%.
Le previsioni di Draghi, che arrivano a immaginare in tre milioni il fabbisogno del mondo del lavoro di questi giovani super diplomati, oggi però fanno i conti con una realtà che affonda le radici in un’altra convinzione: «Le famiglie ritengono che i professionali e i tecnici siano luoghi in cui i loro ragazzi entrino in contatto con teste calde, con giovani emarginati delle periferie. Il timore delle cattive compagnie, unito all’idea che il liceo apra più decisamente le porte dell’ascensore sociale, producono questa desertificazione che si fa rischiosa perché svuota il mondo scolastico di un perno essenziale del circuito formativo. Quindi, prima cosa contrastare il fondamento stesso di questa idea, e per contrastarlo arricchire il percorso formativo investendo quattrini veri nelle scuole e assicurare uno sbocco lavorativo che nel tempo si è fatto così precario fino a estinguersi. Era il motivo principale dell’accesso agli istituti tecnici », spiega Silvia Ovidi che insegna italiano e latino al Newton, un liceo scientifico romano ben strutturato, accogliente, e invitante a nuovi ingressi.
Tanti sono infatti i licei che con le cosiddette “curvature”, declinazioni dell’offerta formativa proposte in autonomia da ogni singolo istituto, hanno illustrato corsi più “pop”: meno latino e più educazione fisica, ad esempio. Sono nati licei a indirizzo sportivo che hanno raccolto ulteriori successi e svuotato i serbatoi tradizionali delle scuole tecniche e di formazione.
Ieri non era così. Il racconto di Sara Calisti, imprenditrice marchigiana, ci ricorda cosa avevamo e cosa invece stiamo perdendo. «Ho frequentato l’Istituto tecnico agrario Celso Ulpiani di Ascoli Piceno a cavallo tra gli anni Ottanta e Novanta. Era una scuola con pochi studenti e una percentuale bassissima di donne. Le preferenze delle ragazze erano per i licei ma la destinazione comune era l’istituto magistrale, un vero e proprio gineceo. Alle medie i miei professori scrissero su un foglietto destinato ai miei genitori: si consigliano studi umanistici. Mi dissi: io una scelta facile non la voglio fare, mi voglio mettere alla prova! Quindi decisi per l’agrario subendo le ilarità dei miei coetanei che mi etichettarono come una “contadina”. Sarebbe bene ricordare le parole di Martin Luther King, “Se un uomo è chiamato a essere spazzino della strada, egli dovrebbe spazzare le strade proprio come Michelangelo dipingeva, o Beethoven componeva musica, o Shakespeare scriveva poesia”, per dire che ogni lavoro ha la sua dignità. Quindi oggi a capo della mia azienda agricola medio-grande, posso dire che la preparazione ricevuta all’Ulpiani è stata fondamentale per il mio percorso lavorativo e non mi sono mai pentita della scelta, anche quando ero costantemente rimandata a settembre in matematica. La mia scelta controcorrente è stata premiata anche nel percorso universitario alla Sapienza, presso la facoltà di scienze naturali. La mia esperienza scolastica si è trasformata in una tradizione di famiglia visto che anche mio figlio si è diplomato lì».
Enologia, viticultura, meccatronica, moda, nautica, tecnologia, commerciale. Il mondo degli istituti tecnici ha formato decine di migliaia di occupati ad alta specializzazione e ha tradotto in classe migliaia di giovani che, senza quella offerta formativa, avrebbero trovato il più delle volte la strada e non un ufficio, un cantiere, una fabbrica ad accoglierli.
«Perciò l’urgenza adesso è quella di tributare agli istituti tecnici nuova linfa e fiducia spostando ad esempio solo su di essi la cosiddetta alternanza scuola-lavoro, togliendoli cioè ai licei, garantendo a chi si iscrive un plus di formazione in azienda, una prospettazione più concreta di come il mondo del lavoro aspetta chi si diploma», dice la professoressa Ovidi.
(Copertina) Education, foto di Richard Lee, 2007. (Sopra) Studenti della Scuola siderurgica dell’Italsider Attilio Odero, Genova, 1960
In Italia, da Sud a Nord, ci sono perle di istruzione tecnica, luoghi in cui l’incontro tra lo studio e il lavoro è certo, sicuro, validato da un circuito di sponsor che accompagna gli studenti. Sono appunto gli ITS, i corsi non universitari di chi si diploma e cerca un’alta formazione professionale e uno sbocco meglio tutelato nel lavoro. A Catania l’Istituto Duca degli Abruzzi forma i tecnici della mobilità sostenibile, della nautica, dei trasporti su ferro e gomma. Manovratori delle navi che operano nello Stretto di Messina, dei cantieri che garantiscono le riparazioni e le nuove imbarcazioni. Quell’ITS è già un successo, è storia riconosciuta, è formazione presente e viva. E la corona di aziende che accompagnano gli studenti nel mondo del lavoro è la prova che l’industria non ha solo bisogno della formazione permanente ma è assetata di tutto quel mondo di mezzo, quel segmento che traduce in azioni le indicazioni, come quei mediani di spinta che sono la linfa vitale di una squadra di calcio.
E se si sale più a Nord, a Firenze ad esempio, si incontra il MITA, che è l’accademia per la moda e il design. Come a Catania, ammissione con selezione e poi i due anni che servono al neodiplomato per acquisire, in una full immersion, le doti necessarie per occupare i segmenti, ricchi di prospettive e opportunità, dell’industria della moda.
C’è una vocale in meno, la i, tra ITIS e ITS che rende quest’ultimo una piccola pietra preziosa dell’attuale sistema di formazione professionale. Funzionano gli ITS ma ancora troppo poco. Solo 18.000 gli iscritti e una presenza sul territorio poco capillare, poco conosciuta. Il sistema di governo di tali istituti, racchiusi spesso in una fondazione, è misto: pubblico e privato a braccetto. Le aziende si servono di questa enclave, lo Stato finanzia la formazione. A Sesto San Giovanni l’Istituto tecnico superiore lombardo sviluppa le nuove tecnologie meccaniche e meccatroniche. Snodo decisivo e insieme approdo necessario per i ragazzi e le ragazze che vogliano impegnarsi nelle aziende della manifattura meccanica. Successo immediato e garantito. Resta la domanda: perché così pochi? Perché gli istituti tecnici vengono visti come un’area di stazionamento mentre le loro declinazioni specialistiche sono così decisive nella costruzione di quel capitale umano che serve all’industria per fare i conti con la modernità?
Alessandro Fusacchia, oggi deputato, è stato capo di gabinetto al ministero dell’Istruzione e dunque sul tema ha consapevolezza e qualche dato in più. «Viviamo un’epoca di transizioni: quella ecologica e quella digitale sono sotto gli occhi di tutti. Ma c’è una transizione in atto in ogni porzione di società e ambito economico. Financo il mondo della cultura è in subbuglio e nuovi mestieri nasceranno dalla sempre maggiore ibridazione di arti e digitale: cambieranno le maestranze, emergeranno nuove tipologie di artisti. I luoghi giocheranno un ruolo cruciale, le province avranno l’occasione di diventare vibranti e riconoscibili attrattive, se sapranno diventare “migliori al mondo” magari nella loro piccola nicchia. In tutto questo serviranno politiche di orientamento dei giovani molto forti, ma anche un’offerta di formazione profondamente rinnovata, che tocchi certamente le università ma anche gli ITS per farne una valida alternativa diffusa in tutta Italia dove prepararsi ai nuovi lavori e cogliere le nuove connessioni tra impresa, formazione, territorio. Sugli ITS dovremo puntare molto di più di quanto fatto in passato per finirla con un’Italia costruita per compartimenti stagni, riprenderci dopo la malattia di questi anni e governare le tante transizioni».
Dovremo, oppure faremo. Tutti verbi ancora coniugati al futuro. Ma è questo il futuro che ci aspetta? Secondo il sociologo Domenico De Masi, non proprio: «I nostri trisavoli vivevano 300.000 ore e di queste 150.000 le destinavano al lavoro. Noi viviamo 700.000 ore e solo 70.000 sono lavorate. C’è un tema grande così della tecnologia che ruba le braccia e i cervelli, e di cosa fare e come fare per partecipare alla torta del lavoro che si rimpicciolisce. L’unica strada, per farla mangiare a tutti, è farne fette più piccine. Ridurre quindi l’orario di lavoro. E fare in modo che coloro che verranno chiamati siano messi in condizione di essere all’altezza. La concorrenza si farà durissima e non ci sarà spazio per chi ha trascorso la sua gioventù sbadigliando sui banchi di scuola».