La via tecnologica all'esistenza

Di Danco Singer

La diffusione del coronavirus ha comportato gravissime conseguenze sul tessuto economico e sociale del nostro paese, con rilevanti impatti sull’occupazione, specialmente quella dei giovani e delle donne. È necessario investire in una transizione culturale a partire dal patrimonio identitario umanistico che ci è riconosciuto a livello internazionale. Qui sta il vero nodo cruciale della “transizione” che stiamo vivendo – ecologica, sociale, produttiva, occupazionale – che salutiamo spesso con ingenuo entusiasmo, senza chiederci se siamo realmente preparati a governarla. Non tanto e non solo tecnicamente, ma in termini di persone e di pensiero.

Come ricorda Maurizio Ferraris, “secolo nuovo”, “mondo nuovo” significa anche una nuova umanità. Sì, perché l’umanità non costituisce un’entità definita, ma è piuttosto un progetto in divenire a cui tutti noi contribuiamo, in dialogo costante con “i giganti” che ci hanno preceduto e con il presente con cui dobbiamo fare i conti e in cui siamo chiamati a tracciare le rotte verso il futuro che vogliamo.

Difficile comprendere appieno l’entità della rivoluzione tecnologica che stiamo vivendo. Luciano Floridi, il padre della filosofia dell’informazione, ha provato a definirla con il termine “onlife”, puntando l’accento su quella dimensione vitale, relazionale, sociale, comunicativa, lavorativa ed economica, frutto di una continua interrelazione tra la realtà materiale e la realtà virtuale e interattiva; una dimensione in cui dicotomie scontate come quelle fra reale e digitale, uomo e macchina, non sono più così nitide. Il web, potenzialmente ubiquo, omnicomprensivo, impalpabile ma al contempo con una sua propria stringente consistenza, ha avviato una rivoluzione ben più radicale e potente della vecchia rivoluzione industriale che ci lasciamo definitivamente alle spalle. Con IoT, cloud ed edge computing, sistemi di tracciamento e di riconoscimento, traduttori e sintetizzatori vocali che riproducono il linguaggio, il web ci ha fatto conoscere i prodigi di un sistema interconnesso. Un sistema che unisce l’inarrivabile potenza di calcolo delle macchine, che non conosce riposo o fatica, l’ottimizzazione dei tempi e dei processi, la velocità di reazione, la pervasività e facilità d’accesso, seducendoci con vantaggi senza precedenti.

Il capitale stesso ne è trasformato: dopo il capitale industriale e quello finanziario, che hanno connotato la produttività dei secoli passati, oggi abbiamo tra le mani un nuovo tipo di capitale – i big data – molto più influente, capace di condizionare non solo l’organizzazione del mondo produttivo, ma la vita delle persone, con le loro abitudini, gusti, propensioni, e capace di incidere sulla creazione di valore, sui rapporti sociali, sulla mobilitazione delle idee.

È la fine del lavoro? No. È la fine del lavoro come l’abbiamo pensato e vissuto finora. L’attuale situazione di disoccupazione, soprattutto tra i giovani e le donne, passa anche da qui. Dalla capacità della società e di noi tutti di accompagnare il progresso e la riorganizzazione produttiva con una rivoluzione concettuale; passa dalla capacità di formare i lavoratori presenti e futuri (a tutti i livelli della produzione, dai manovali ai manager) perché siano in grado di affrontare questo nuovo contesto, e fornire loro quegli strumenti tecnici e cognitivi che li rendano in grado non solo di eccellere nelle attività che oggi conosciamo, ma di essere pronti a interpretare e a governare anche quelle attività che prenderanno il sopravvento domani.

“Il tema della tecnica” come ci ricorda Richard Sennet «non è mai un procedimento svincolato dal pensiero, bensì una questione culturale; è legato al condurre un particolare modo di vivere». L’atavica dicotomia tra pensiero alto e concretezza tecnica che ha segnato la nostra tradizione educativa e produttiva dei secoli passati ci ha fatto dimenticare che l’intelligenza tecnica si sviluppa attraverso le facoltà dell’immaginazione, della capacità di improvvisare, e che non c’è niente di automatico nel diventare tecnicamente abili, così come non c’è niente di brutalmente meccanico nella tecnica in sé.

Occorre perciò un approccio nuovo alla tecnica, dove i tecnici siano dotati di una preparazione diversa, completa di scienza e umanesimo. E se da un lato le università si stanno sempre più adeguando a questo pensiero facendo convergere i corsi verso approcci più pratici ed esperienziali, vi è un’altra tipologia di percorsi di studio post-secondari, dedicata alle professioni tecniche, che invece nasce con questa vocazione: superare la tradizionale contrapposizione tra scuole pratiche e scuole prettamente teoriche, tra tecnica e pensiero, e che proprio per questo suo impianto è considerata strategica per lo sviluppo economico e la competitività del paese.

Sono gli Istituti tecnici superiori (ITS). Nati nel 1998 per volere del premier Prodi e del ministro della Pubblica istruzione Berlinguer, sul modello delle Scuole di alta formazione tedesche (Fachhochschulen), sono percorsi di studio post secondario pensati per costruire tecnici con una buona formazione, con una visione ampia dei problemi e attrezzati a rispondere ai continui cambiamenti che la ricerca, lo sviluppo tecnologico e la produzione impongono nel nostro secolo. In Italia se ne contano 109, correlati a 6 differenti ambiti: efficienza energetica; mobilità sostenibile; nuove tecnologie della vita; nuove tecnologie per il made in Italy (servizi alle imprese, sistema agro-alimentare, sistema casa, sistema meccanica, sistema moda); tecnologie dell’informazione e della comunicazione; tecnologie innovative per i beni e le attività culturali – turismo.

 

 

Improntati a una didattica esperienziale (più che laboratoriale), gli ITS impiegano metodologie educative centrate sulla partecipazione interattiva e produttiva e sullo sviluppo di soft skills funzionali agli specifici contesti di lavoro. Il 70% dei docenti proviene dalle imprese, il 30% delle ore previste dai corsi è svolto direttamente in azienda, e sono previsti anche stage all’estero. Nel contesto economico attuale, in cui l’occupazione è raramente garantita e la flessibilità e la mobilità sono la norma, queste scuole hanno enormi potenzialità: offrono un capitale di competenze più ampio di quelle strettamente collegate al fabbisogno produttivo odierno, con la possibilità di tenere il passo col mercato; promuovono nuove competenze (socio-culturali, tecniche, organizzative) per nuovi lavori a sostegno dell’empowerment dell’individuo; incentivano una capacità di rielaborazione cognitiva tale da incrementare l’efficacia delle prestazioni in situazioni diverse; danno alle aziende la sicurezza che il personale da assumere possegga una qualifica effettiva, corrispondente a capacità realmente acquisite; e assicurano il possesso di una competenza in linea con standard validi a livello europeo.

La necessità nella realtà italiana è indubbia, come dimostra anche il recente studio condotto da Pearson, EY e Manpower, che analizza il futuro delle professioni e il futuro della domanda di competenze, alla luce dell’accelerazione di alcuni processi trasformativi in corso e sull’emergere di nuove forme di ibridazione tra competenze tecniche e non tecniche, necessarie a gestire al meglio l’evoluzione dell’organizzazione del lavoro. Come si evince dalla Tabella 1 e dalla Figura 1, le aziende hanno fame non solo di laureati, ma di tecnici superiori altamente specializzati, qualificati e affidabili.

Un altro punto di forza che rende qualificanti gli ITS è lo sguardo internazionale, divenuto essenziale nel mondo interconnesso in cui viviamo. Nelle intenzioni degli ITS infatti non vi è solo l’obiettivo di assicurare un’offerta di lavoro rispondente agli specifici bisogni dell’economia regionale, provinciale e comunale, ma anche assicurare personale dotato di requisiti riconosciuti a livello europeo e con una pronta capacità di apprendere e di adattarsi a contesti specifici anche esteri. Un processo che va verso quella tanto auspicata paideia comune, fatta di sapere tecnico, e di unificazione culturale, linguistica, relazionale.

Le tecnologie digitali sono diventate un acceleratore delle dinamiche culturali, mentali e organizzative. Compito della politica e della società (intesa come comunità pensante) è creare opportunità. Creare le condizioni per cui siano gli stessi soggetti a condurre e governare il cambiamento

 

Con l’introduzione degli ITS nel sistema formativo italiano dunque viene fatto un significativo passo avanti nel necessario processo di destrutturazione dell’autoreferenzialità della scuola superiore, avviando un percorso di formazione integrata. Se e quanto gli ITS saranno efficaci e impattanti nel medio e lungo periodo sul comparto produttivo italiano lo vedremo solo tra qualche anno, quando potremo disporre di sufficienti dati statistici, ma intanto il quadro che possiamo valutare a oggi è molto promettente. «Il monitoraggio del 2020 mostra, in miglioramento rispetto agli anni precedenti, un’ulteriore crescita del tasso di occupazione a un anno dal diploma (si tratta ormai dell’83% degli studenti mentre era il 78,5% nel monitoraggio del 2015) e soprattutto mostra che nel 92,4% di questi casi l’impiego è coerente con il percorso di studio svolto in aula e “on the job”».

Le potenzialità ci sono. Quello su cui si deve ancora lavorare è l’informazione, soprattutto nelle classi e nelle attività di orientamento, affinché si superi definitivamente l’errata dicotomia tra conoscenza umanistica e sapere tecnico e si promuova un sistema di istruzione fatto da percorsi di studio d’eccellenza non solo universitari, ma anche tecnici e professionalizzanti.

La rete – come giustamente fa notare Luca De Biase – apre alla complessità decentrando la produzione. Le tecnologie digitali sono diventate un acceleratore delle dinamiche culturali, mentali e organizzative. Compito della politica e della società (intesa come comunità pensante) è creare opportunità. Creare le condizioni per cui siano gli stessi soggetti a condurre e governare il cambiamento, predisporre le condizioni per cui ognuno, nel suo settore, secondo le sue inclinazioni, possa generare valore, possa contribuire proattivamente alla costruzione di una società mobile, che si definisce nel suo farsi e attraverso il fare, il pensare e il creare dei membri che la compongono.

La società di oggi ha bisogno di dirigenti esperti, con una cognizione completa e profonda dei processi, ma ha altrettanto bisogno di tecnici competenti, in grado di maneggiare con consapevolezza macchine sempre più complesse interpretando i contesti e orientandone i fini. Solo così si può tracciare la via tecnologica dell’esistenza. Perché «se i computer vanno più veloci, gli umani però possono andare più lontano».