02.05.2023 Ginevra Leganza

Dipingere l'Umanesimo digitale

Pittore, scultore e architetto italiano, Nicola Verlato è originario di Verona. Dopo una lunga parentesi statunitense fra Los Angeles e New York, dove ha insegnato alla New York Academy of Art, si stabilisce a Roma. Qui porta avanti il suo lavoro, incentrato sulla pittura figurativa e particolarmente attento all’innovazione tecnologica-digitale e al suo impatto sull’arte, in una nuova chiave di un Umanesimo digitale.

Nicola, lei sostiene che l’uomo, oggi, si trovi di fronte a un bivio. Cosa vuol dire?

Vuol dire che il digitale ha creato immagini sempre più complesse. Ed è vero: oggi ci troviamo davanti a una doppia possibilità. Per un verso la tecnologia può creare delle nuove forme religiose, per l’altro potrebbe generare un’altra risposta. Una risposta di nuovo Umanesimo.

Un Umanesimo digitale. Ma come?

Esattamente come accadde in Grecia e poi nell’Italia rinascimentale, dove la sistematizzazione di dati non avvenne per codici ma attraverso immagini. Immagini da non intendersi, però, in senso bruto: come parte di un flusso di figure che compaiono e scompaiono. Ma come informazioni con le quali si possono proporre schemi che entrano e restano nel mondo. In questo senso, il digitale è un ausilio per operare. Un’immagine stampata col 3D, di per sé, è morta. Perché nel vederla il fruitore non sente il gesto e non la sente come parte del mondo. Nell’opera, invece, si riconosce l’umano: il gesto umano e il processo (oltre che il risultato).

Nonostante tutto avremo sempre bisogno di “sentire”?

Sì. Nel caso dell’arte, sentire il gesto vuol dire vedere l’opera e pensare: un uomo è passato di qua. L’arte figurativa è perciò un double shock: nell’arte figurativa c’è un corpo che crea un altro corpo, “passando di qua”. Pensiamo al potere dell’immagine dipinta e scolpita. Non a caso è quello attorno al quale in Italia, sono nate le chiese. E, attorno alle chiese, le piazze. Un’altra società ha censurato questo tipo di potere dell’immagine in favore della parola. Penso al mondo anglosassone.

Lei è un pittore figurativo, ma presta grande attenzione all’innovazione tecnologica e digitale.

Quando a diciassette anni vidi il film Tron, ebbi un sussulto. I disegni sulla prospettiva di Paolo Uccello erano trasposti con mezzi digitali. Allora ho pensato di dovermi impadronire di questi mezzi.

Arte e tecnologia non sono mondi che si escludono?

Affatto. Anzi, occorre proprio conoscere i nuovi programmi per riprendere quel vecchio progetto di Umanesimo – questa volta in chiave digitale – e portarlo avanti per rafforzare l’immagine dipinta. Per renderla capace di agire e reagire al potere dei codici. Noi siamo in un mondo che è diventato di codici.

Cosa significa essere in un mondo di codici?

Significa essere in un mondo che non parla un linguaggio universale (che è invece il linguaggio delle immagini). Provo a spiegarmi.

Prego.

Tu riesci a comprendere le grandi concettualizzazioni se non hai studiato matematica? No, non ci riesci. Per questo l’immagine, in un mondo digitalizzato, è fondamentale. Perché riporta le cose al livello sensoriale, garantisce un senso di socialità. Ma questo progetto è possibile se ci muniamo di strumenti sosfisticati ed esatti. Se impariamo a usarli, se abbiamo la possibilità di stampare in 3D poligoni complessissimi per poterli toccare… Il nostro è un momento importante perché abbiamo superato la fase – per così dire – dell’invisibilità, ovvero dell’impossibilità per i sensi di esperire ciò che producevano i codici. Oggi, attraverso nuovi mezzi, la complessità digitale potrebbe essere concepibile con i sensi. Insomma, fra immagini e ausilio digitale, abbiamo la possibilità di chiudere il cerchio.

Possiamo vivere un nuovo Umanesimo. Seguirà un nuovo Rinascimento?

Il Rinascimento è un snodo favoloso perché un’enorme quantità di conoscenza si traduce in forma. In qualche modo, un dipinto di Piero della Francesca è anch’esso un Metaverso.

In che senso?

Nel senso che è un mondo nuovo. E quella realizzata è semplicemente la migliore immagine fra le tante che Piero della Francesca avrebbe potuto realizzare. Perché un suo dipinto è un progetto. È dunque un mondo coerente, che potrebbe essere osservato da qualsiasi punto di vista. Anche per questo io mi sono cimentato col mezzo e ho prodotto un frammento di Metaverso.

Cosa ha realizzato?

Attraverso una app si poteva guardare un mio quadro entrandoci dentro. Ma è una operazione, questa, che si può fare anche con un dipinto di sei secoli fa! E sarebbe un’operazione umanistica compiuta attraverso l’uso del digitale. Dal punto di vista culturale, infatti, in una logica umanistica, il corpo fisico è al centro di tutto. Il punto a partire dal quale si aprono delle finestre. Sarebbe interessante e giusto approcciarsi al digitale con una coscienza culturale precisa: la nostra, che privilegia il corpo. Perché mentre negli Stati Uniti è tutto escapism – un cercare di andare altrove dal momento che il mondo reale è vissuto come la limitazione del corpo – qui da noi il corpo è centrale. E può aprire a un altro approccio al digitale a partire dal corpo fisico, che è la nostra presenza nel mondo. Una realtà “madre” da cui generano tutte le altre realtà.

Come vede un pittore la possibilità dell’arte digitale e degli NFT?

Il mondo degli NFT mi ha mostrato nuove possibilità. Penso anche ad alcuni miei collaboratori che lavorano prevalentemente per il cinema e i videogiochi… Persone con competenze incredibili, che lavorano su materie assai complesse, prima dell’NFT ottenevano come riconoscimento giusto una citazione nei titoli di coda. Attraverso il certificato digitale, oggi, anche loro sono riusciti a diventare protagonisti. A ottenere un meritato status che prima non c’era. L’NFT fa in modo che le immagini immerse nel flusso possano comprimersi e diventare dei quasi-oggetti. Forse è proprio questa la grande forza dell’NFT: avvicinare qualcosa di evanescente allo status di oggetto.

Una visione positiva.

Vedo gli NFT in modo molto positivo, sì. Attraverso questa nuova tecnologia che ha posto al centro la modellazione 3D come strumento principale per realizzare immagini, si entra in un altro paradigma antropologico.

Cioè?

Sinora il paradigma era stato quello fotografico. Ma oggi che sono tutti fotografi, nessuno è fotografo. Quello che negli anni Cinquanta, Sessanta e Settanta era appunto il paradigma, è perso. Mi viene sempre in mente Apocalypse now, il fotografo che esplora il mondo ed entra in qualsiasi situazione, carico di macchine fotografiche. Il fotografo è una specie di intermediario. Oggi abbiamo nuovi intermediari che però costruiscono nuovi mondi. Sono i famosi nerd, considerati un tempo reietti, e oggi i protagonisti di una nuova evoluzione antropologica.

Intende dire che il nerd e il programmatore sono a tutti gli effetti artisti?

No, questo non lo direi. Non perché non possano esserlo, ma perché scrivere codici non basta. Chi scrive codici è come il monaco nei monasteri che macina i colori e trova le vernici. Non voglio derubricare questi lavori: i monaci scoprivano medicamenti di tutti i generi, erano i proto-alchimisti. Per intenderci, un altro paragone potrebbe essere quello fra i programmatori e i tessitori di tela. Voglio dire: si tratta di lavori preliminari alla creatività. La creatività vera e propria è di chi si trova davanti un foglio bianco o una tela bianca. È di chi mette i segni e attiva l’immaginazione. Quando segni il foglio, fai uno scarabocchio, stai cominciando a crearti delle immagini nella testa. E ribadisco: la creatività non è quella verbale o dei codici. Con l’Ai, che invece mi preoccupa moltissimo, infatti, viene a mancare quel processo che aumenta enormemente la produzione di conoscenza e crea spazi amplissimi entro cui si ha lo shock di trovarsi di fronte alla bellezza.

Cosa provoca lo shock della bellezza?

Attraverso la bellezza noi ci connettiamo col mondo. Io credo che il reale non sia conoscibile attraverso la scrittura o attraverso i codici, perché c’è sempre qualcosa di inafferrabile, mentre l’immagine crea un circuito fra interno della mente ed esterno del mondo. 

Attraverso l’immagine cosi' ottenuta come frutto di questo rapporto – e cioè attraverso la bellezza – l’oggetto si incastona nel mondo. E ci fa pensare che l’uomo non è fuori, ma è parte della natura. In questo senso, l’opera d’arte lo testimonia. Noi abbiamo bisogno di questa terapia.

Diceva prima che l’immagine intesa in questo senso è una peculiarità del nostro quadro culturale.

La potenza dell’immagine occidentale è diversa dalle immagini cinesi o giapponesi, che non hanno dovuto combattere contro la possibilità di sparire. Non c’è mai stato un monoteismo iconocloasta. In India c’è stato, con l’Islam, e tuttavia la cultura indiana non ha sviluppato l’immagine allo stesso modo in cui si è sviluppata in Occidente, dal Rinascimento in poi. L’immagine è servita, qui, per riconnetterci con il mondo dopo lo strappo del monoteismno.

Diceva pure che c’è una differenza profonda fra l’Occidente della prospettiva e quello che ha privilegiato la dimensione della parola.

Potremmo dire che l’Occidente ha sviluppato due ceppi. Da un lato il mondo nordeuropeo ha messo in piedi un progetto di disconnessione dal mondo che porta a un incremento di velocità. Dall’altro c’è un Occidente che, attraverso un’apparente lentezza, tiene insieme l’identità dell’immagine con un mondo che non ci corrisponde più. A partire da questa consapevolezza, noi dovremmo immaginare un progetto diverso. Un progetto che ricalchi quello del Rinascimento, in cui il mondo è stato piegato verso il recupero dell’Umanesimo.

Digitale e Umanesimo si incontrano nell’immagine intesa come progetto?

Come dicevo, noi abbiamo vissuto a lungo nel paradigma fotografico che ci ha reso inerti. Le radici della fotografia sono ancora più antiche della sua invenzione nell’Ottocento. Affondano nel Seicento, col Calvinismo, ovvero con l’idea di immagine come documento. Oggi col digitale superiamo questo paradigma e abbiamo la possibilità di tornare all’immagine come progetto. Pensiamo anche ai videogiochi. Con Minecraft, per esempio, un ragazzino si trova davanti al vuoto nel quale progettare, costruire…

Il pittore, in questo contesto, deve smettere di documentare il mondo e tornare a progettarlo?

È così. Un pittore come Gerhard Richter dice “io faccio la fotografia”, in senso letterale: “io scrivo la luce”. È evidente sia ancora in quel paradigma. Sia io che lui abbiamo realizzato un quadro sull’11 settembre. Richter secondo un paradigma fotografico e documentale, io secondo un’idea di progetto. Ho immaginato i passeggeri dell’aereo che vedevano il telegiornale, e nel mentre vedevano sé stessi schiantarsi contro il grattacielo. Ecco, questo anche per dire che senza i mezzi tecnologici, senza il pc, non avrei potuto fuoriuscire dal paradigma fotografico. Con questi mezzi io sono entrato nella modalità del videogioco. Ovvero in nuovo paradigma che agevola la creazione.

Che caratteristiche ha questo paradigma?

È un paradigma non lineare – come quello del cinema – ma rizomatico. Implica l’azione. E infatti nel videogioco noi possiamo tornare in un luogo, riavvolgere il nastro, eludere una logica lineare. Una logica – a ben vedere – di stampo medioevale, dove la volontà di Dio ha già presupposto le nostre azioni. Il Rinascimento ha una logica rizomatica, invece, e molto più vicina a quella che viviamo oggi. Una logica che con la prospettiva spalanca le possibilità. Noi siamo nell’epoca di modellizzazione: il tempo in cui si producono modelli. Il punto è che se noi viviamo questo momento con una logica medievale, siamo succubi di una storia già data. Dobbiamo trovare, invece, una maniera attraverso la quale l’uomo torni responsabile e – in certo senso – riconquisti il proprio destino.

Questo vale per l’uomo inteso come individuo. Ma vale anche per la comunità?

Certamente. Siamo in un momento di passaggio, in cui sussiste la possibilità che – attraverso il digitale – si riaggiorni qualcosa che già esisteva nella Grecia antica. Penso alla possibilità di una vera democrazia, non so se ciò succederà o meno. Ma siamo in un momento di grande rimescolamento, in cui è importante capire come ricodificare a fronte di tanti i punti di vista possibili. Vale per la comunità, ma vale anche per gli spazi della comunità stessa.

Come bisogna ripensarli?

Sempre attraverso il corpo. Io non insegno con la logica geometrica. Michelangelo diceva che bisogna avere le squadre negli occhi. Per questo, anche per rimettere il corpo al centro, è importante affidarsi all’occhio per progettare. Con l’uso del computer 3D, oggi, si ha la possibilità di agire, di vedere le cose da un punto di vista prescelto. Tutto questo può integrarsi, in qualche modo, con una visione umanistica. Anche l’uomo ha la sua forma storta, che però ti fa vedere le cose dritte. Noi siamo storti. E il reale stesso è molto più complesso, per questo il mezzo migliore per esperirlo è il corpo umano. E sempre per questo dobbiamo tenerlo al centro, altrimenti rischiamo di vivere completamente disconnessi. Un pericolo che la vera arte combatte, proprio perché l’arte non è una cosa in sé ma è una relazione. Ed è per questo che ha bisogno di una cosa determinata, altrimenti è inerzia pura. Lo stesso discorso di “relazione” vale per i progetti che si fanno tangibili, come l’architettura. Che se non è relazione, è semplicemente edilizia.

La grande architettura parte dal corpo?

Sì. L’edificio palladiano o michelangiolesco ha un rapporto fra elementi molto complesso. Gli intercolunni sono tutti diversi, le colonne esterne sono più larghe… Sono accorgimenti che sono una scienza. Recenti studi provano come le immagini producano impatto se l’asse di simmetria è leggermente spostato a sinistra. Michelangelo, Leonardo, Raffaello hanno più assi di simmetria, tutti spostati verso sinistra. Anch’io, quasi istintivamente, senza sapere di questo studio, nei modelli al computer spostavo l’asse verso sinistra. E questo è sorprendente perché ti dice come, a distanza di anni, secoli, millenni, con nuovi mezzi digitali, i parametri sono sempre gli stessi.