28.03.2023 Eugenio Mazzarella

Il digitale genitoriale, verso il Meta-Frankenstein

Il rovente dibattito sull’ammissibilità etica e giuridica di nuove pratiche sociali di genitorialità, rese possibili dalle tecniche di procreazione assistita ormai ben al di là, per il consensus sociale che hanno acquisito, del triangolo edipico classico padre, madre, bambino, è forse l’aspetto più emozionale nell’opinione pubblica del dominio sempre più pervasivo dell’artificio sulle nostre vite. Un dominio non più ristretto all’artificialità meccanica su cui lavorano le STEM, le discipline scientifiche, tecniche, ingegneristiche, matematiche, ma esteso all’artificialità sociale sempre più accentuata che rende possibile, con nuove pratiche di “costruzione” sociale e giuridica degli elementi (individui) e dei nessi (le relazioni) basici della produzione e riproduzione sociale. Due linee di sviluppo dell’artificialità che si intrecciano e si potenziano a vicenda sempre più. 
La domanda una volta innaturale “di chi è figlio un figlio?”, che aveva almeno la madre biologicamente certa, ci rende evidente che stiamo costruendo, e rendendo possibili sempre di più, identità sociali Frankenstein, tramite il potenziamento-estensione artificiale delle possibilità “secondo il sangue” e “secondo il cuore” con cui l’identità del “figlio” l’abbiamo fin qui socialmente costruita sulla base della tradizione, cioè delle possibilità a noi tradite dalla natura e dalla storia. “Identità Frankenstein” cui è sempre più complesso garantire i diritti della “persona”, quale fin qui siamo riusciti a costruirla e a pensarla.

Ci muoviamo ormai in un orizzonte di macerie del senso comune. E così mentre non accettiamo più, e giustamente, altari ad Antinoo ancorché eretti da Adriano, non siamo alieni dal celebrare sugli altari, perché “aiuta l’amore” di due genitori a “fare famiglia”, l’utero comunque generatore, nella cornice ideologica di un “progressismo” valoriale che da un lato condanna giustamente ogni lesione ai diritti dell’infanzia e l’utero in affitto come mercificazione della donna, ma dall’altro chiede nei fatti una franchigia merceologica per la fattura e la fatturazione di un bambino fino all’adozione dei genitori committenti.

Grazie a questo intreccio di artificialità tecnica e artificialità sociale, ci si muove sempre più in un “metaverso” sociale dove mutano e si ampliano le modalità bio-psico-sociali di costruzione della nostra identità “umana”, il cui concetto fatica a tener dietro all’ “evoluzione” della sua realtà. E se si volge lo sguardo all’estensione della nostra esperienza reale ai mondi virtuali, al transito, che la dilata sempre più, della nostra esperienza offline nel metaverso digitale, se si volge lo sguardo al metaverso propriamente detto, l’inquietudine si fa sempre più stringente. Fattore potente di ricodifica della stessa costruzione della nostra identità “personale”, la vita nell’onlife, la vita che si amplia e si ricodifica nell’esperienza digitale, rischia di essere sempre meno nostra, perché buona parte del suo software, cioè dei suoi processi di identificazione, non “girerà” più sull’hardware del nostro corpo “naturale” individuale e collettivo; ovvero “secondo il sangue” e “secondo il cuore” (la dimensione “organica” della nostra individuazione singola e collettiva). Ma girerà su un hardware, su un “corpo” costruito, manipolato, controllato e fornitoci dalle grandi corporation digitali. Che diritti potremo riconoscere ad un’individualità così costruita che siano effettivamente in capo a sé stessa, e non si riducano ad utenze di forniture di possibilità di vita decise da altri? Come sarà possibile queste “forniture” di identità contrattualizzarle non a scapito dell’utente?


Più in generale: avrà ancora praticabilità giuridica effettiva in questo scenario il principio dello Habeas corpus, in senso generico e generale la tutela, cioè, e le garanzie delle libertà personali del cittadino assicurate dalla nostra civiltà giuridica, per l’Italia sancito dall’art. 13 della Costituzione? Quanta libertà resterà in capo a noi stessi, almeno come riusciamo a pensarla, spesso senza neppure averla davvero, in modo sostantivo e non formale quanto a diritti effettivamente goduti, e non solo sanciti? Il punto è che sotto la pressione del combinato disposto di desiderio e artificio, stiamo costruendo sempre più identità sociali Frankenstein, identità ibride, quando non chimeriche, variamente assemblate, che chiedono alla società, alla politica e al diritto, tutele – per altro difficili da erogare senza che qualcuno ne paghi il prezzo, spesso i più deboli – alla loro intrinseca fragilità.


Ora la domanda è: può reggere, e a quali costi, questo scenario per l’umano quale ci è stato consegnato da un farsi dell’uomo nella “presenza” garantito dalla tradizione? Dalla tradizione: da quel che gli hanno trasmesso – condizionandolo, ma anche sorreggendolo in modo esperto – millenni di evoluzione della natura (secondo il sangue) e della storia (secondo il cuore)? La domanda non è passatismo che non vuole prendere atto che l’uomo si è fatto “antiquato”, secondo una formula di Anders cara ai “postumanisti”. Pone un quesito funzionale: quale è l’efficienza evolutiva, anche in termini comparati anche rispetto ad altre società, ad altri assetti valoriali del senso comune, di questa deriva “artificialista” della nostra società? E a quali costi per l’umano come persona da essa faticosamente messo in piedi da un paio di millenni, cui non siamo ancora riusciti a garantire in modo equo e diffuso i diritti e le tutele che per questo “vecchio” umano eravamo riusciti a pensare? Le tecnologie giuridiche saranno in grado di reggere il bisogno di diritti che, in quanto ancora “umane”, se lo saranno, emergerà da queste identità ibride? E potranno essere sono tecnologie “riparative” ai danni collaterali dell’artificio in via di metabolizzazione da parte della società? O dovranno porsi urgentemente il problema di essere tecnologie “interdittive” dell’artificializzazione della vita, in quanto “predittive” di quel che ne può venire? In definitiva ricorrere tra i vecchi ferri del mestiere al “divieto”. Al divieto di fare anche quel che si può fare, resistendo alle pressioni del mercato e di un desiderio individuale esondato da quel che la comunità, che è fatta anche di altri che non ci sono ancora, può reggere.

 

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