02.01.2024 Oscar Iarussi

L’egemonia culturale del pioniere Basaglia

Si fa un gran parlare di egemonia culturale. Lo storico concetto di Antonio Gramsci, forzato per l’occasione, viene applicato alle nomine governative in vari enti e alle proteste dell’opposizione che a sua volta in passato non è stata indenne da pratiche più o meno sbrigative di spoils system. 

Nondimeno il tema dell’egemonia resta e nell’orizzonte digitale/virtuale che ci iscrive potrebbe essere riformulato nei termini di un ritorno alla realtà.

Ovvero, un’effettiva egemonia è possibile senza un ricominciamento dei rapporti dal vivo fra le persone? Papa Francesco ha più volte parlato della cultura come «conoscenza umile e relazionale» e di certo non si dà egemonia in astratto. In assenza di tale cambio di paradigma, il primato rischia di rimanere quello dell’algoritmo o degli influencer che pure mostrano la corda per tanti aspetti. Non si tratta di attardarsi nella nostalgia del Novecento, anzi, il «nuovo realismo» muove dalla critica del postmoderno per rispondere al riemergere del tragico nei nostri anni di guerre e di crisi economica (Maurizio Ferraris, Laterza 2012).

Convegni e articoli, due documentari di Erika Rossi e Maurizio Sciarra e un libro di Valentina Furlanetto (Cento giorni che non torno, Laterza) celebrano in questi giorni il centenario della nascita dello psichiatra Franco Basaglia (Venezia 1924-1980), il padre della riforma che portò alla chiusura dei manicomi, poi legiferata nella 180 del 1978, e all’istituzione dei servizi pubblici di igiene mentale. Il filosofo Pier Aldo Rovatti ne ha ricordato la centralità ben oltre l’ambito medico: «Quando Basaglia ci ha detto che occorre “restituire la soggettività” […] ha lanciato un messaggio in cui era in questione il “chi siamo?” di ciascuno di noi» (“Il Piccolo”, 15 marzo 2024). L’esperienza di Basaglia, fra teoria e prassi, costituisce un esercizio di realtà e si può considerare un tentativo riuscito di egemonia culturale, ancorché esposta negli ultimi decenni al riaffermarsi di una lettura più biologica che relazionale del disagio psichico.

«Per dirsi civile la società – sostiene Basaglia – dovrebbe accettare tanto la ragione quanto la follia». E ancora: «Da vicino nessuno è normale».

Oggi nel dibattito pubblico non v’è che il fantasma di quelle discussioni suscitate da soggetti collettivi quali furono Psichiatria Democratica o Magistratura Democratica, che ebbero la capacità di divulgare conoscenze specialistiche in contesti larghi, coniugando la terapia o il diritto con la difesa dei più deboli. 

Basaglia sperimentava un approccio altro alla cura negli ospedali psichiatrici di Gorizia, Colorno e Trieste e intanto dava alle stampe libri con i suoi allievi o con la moglie Franca Ongaro, e teneva memorabili conferenze divulgative (personalmente lo ricordiamo al Castello Svevo di Bari, persuasivo come pochi altri, con la giacca di velluto e le Desert Boot di ordinanza negli anni Settanta). Nulla a che fare con lo star system all’amatriciana in auge che impone la visibilità immediata e quindi l’individualismo estremo, spesso iracondo e pronto al cascame avanguardistico della ressa verbale.


Ma quali sono le qualità di un pensiero potenzialmente egemonico? In Basaglia sono evidenti almeno tre elementi. Il primo è la propensione al lavoro collettivo e lo sporcarsi le mani nell’impegno sociale, un lascito della Resistenza cui il giovane Franco aveva preso parte nella sua città. Il secondo è l’incrocio dei saperi – la clinica e la filosofia, la cultura scientifica e quella umanistica –, nell’orizzonte della critica al positivismo e alle istituzioni totali che va da Ludwig Binswanger a Jean-Paul Sartre, da Erving Goffman a Michel Foucault. Infine, terzo elemento, rileva la generatività di Basaglia, la capacità di fecondare idee e prove anche in altri linguaggi simbolici, dalla letteratura alla fotografia (pensiamo solo a Carla Cerati, Gianni Berengo Gardin, Uliano Lucas), fino alla politica, appunto. C’era una volta l’egemonia culturale…

 

Credits Copertina: Tim Mossholder su Unsplash