20.06.2022 Gionata Picchio

I giganti internazionali. Una mappa dei players in Europa, America e Asia

In un mondo dominato dalle fonti fossili, a tenere il centro della scena nell’energia sono ancora le grandi major e le compagnie di Stato dei paesi produttori di idrocarburi. 

Il loro regno, però, è da tempo sotto la pressione di fattori come l’emergenza climatica e le tensioni geopolitiche, che progressivamente modificano la mappa del settore: cambiando volto alle grandi utility, facendo emergere nuovi operatori e spostando il baricentro anche geografico del business, soprattutto verso l’Asia. Fare una ricognizione dei maggiori protagonisti del variegato mondo dell’energia è impresa non semplice. Qualunque tentativo però non può che partire dai dati di base: come si compone l’offerta globale di energia, quali sono i consumi energetici finali – ossia in che modo viene concretamente utilizzata – e come si produce l’elettricità, che ne rappresenta solo una delle forme, oggi neppure maggioritaria, ma estremamente pregiata e versatile. Fatta 100 tutta l’energia resa disponibile nel mondo, oltre tre quarti è di origine fossile, più della metà è composta da petrolio e gas e il resto carbone, mentre le fonti rinnovabili (acqua, sole, vento) rappresentano solo un 5% circa, a cui va aggiunto un 9% di bioenergie. Se ci si sposta a guardare il mix di generazione elettrica, a far la parte del leone sono carbone e gas, stavolta con una quota significativa (quasi un quarto) anche per le rinnovabili. Il quadro dei consumi finali è ancora diverso: il petrolio, dominante nei trasporti, rappresenta da solo i due quinti del totale, superando il 56% se si aggiunge anche il gas, utilizzato sia negli edifici che nell’industria. L’elettricità infine copre un quinto dei consumi. Data questa premessa, cominciamo dai produttori di petrolio, gas e carbone.

Secondo l’IEA, l’Agenzia internazionale dell’energia, nel 2020 la domanda mondiale di petrolio è stata di circa 91 milioni di barili giornalieri, l’offerta di oltre 93. Di questi un 10% circa è venuto da un singolo produttore, la compagnia di Stato dell’Arabia Saudita, che pur con i prezzi ai minimi da anni a causa della pandemia ha realizzato un fatturato di oltre 200 miliardi di dollari. Segue a distanza la russa Rosneft, con un 4,4% della produzione e un fatturato equivalente a quasi 80 miliardi di dollari. Vengono poi la compagnia cinese anch’essa a capitale pubblico Cnpc, la brasiliana Petrobras e solo a questo punto si incontrano alcune major occidentali, BP, Chevron, Shell ed ExxonMobil. Proseguendo nella classifica oltre la decima posizione, l’italiana Eni si incontrerebbe poco più avanti, con 0,84 mln di b/g. Ma nella top ten non sono incluse per insufficienza di dati altre importanti National Oil Company (NOC), come la Adnoc degli Emirati, la Nioc iraniana e la Kpc del Kuwait, che dichiarano tutte più di 3 mln b/g. [Tabella 1]

In pratica nel mondo le NOC degli Stati produttori sono di gran lunga predominanti: secondo IEA nel 2018 hanno estratto quasi il 58% del greggio, di cui controllano anche il 67% delle riserve, le major solo il 15%. Il restante 28% circa è venuto da un arcipelago di piccoli e medi operatori indipendenti. A livello geografico, quasi un terzo di tutto il greggio è estratto in Medio Oriente, più di un quarto in America del Nord, dove gli Stati Uniti sono tornati da alcuni anni a essere il primo produttore mondiale, e oltre un 15% negli Stati dell’ex URSS. Passando al gas, il quadro è per molti aspetti simile, anche se con alcune differenze di rilievo.

(Copertina) Mondo Smeraldo, Fabrizio Corneli, 2010, bottiglia da laboratorio dipinta, pinze da laboratorio, alogena, Studio Trisorio. (Sopra) Don Chisciotte, Teresa Emanuele, 2015, in In Somnia – atto unico, fotoscenografie di Teresa Emanuele, a cura di Achille Bonito Oliva, 2015, Palazzo Racani Arroni, Spoleto e Adnkronos Museum, Roma. In questa serie fotografica, l’artista, che di solito lavora con il bianco e nero, realizza le scenografie teatrali del Don Chisciotte, qui riprodotte, in cui l’eroe tragico di Miguel de Cervantes combatte contro delle moderne pale eoliche

Pure in questo caso in primo piano ci sono le compagnie dei paesi produttori, a cominciare dalla russa Gazprom che nel 2020 ha prodotto da sola oltre un decimo di tutto il gas del mondo e un fatturato equivalente a oltre 87 miliardi di dollari. Complessivamente dei circa 4000 mld mc di gas estratti nell’anno, oltre il 51% è venuto da compagnie nazionali, che detengono anche il 60% delle riserve; le major hanno contribuito per un 15% e gli operatori indipendenti per il restante terzo. Tra i singoli paesi produttori, in testa troviamo nuovamente gli Stati Uniti, grazie all’esplosione delle estrazioni di shale gas nell’ultimo decennio, seguiti da Russia, Iran, Cina, Canada, Qatar e Australia. [Tabella 2] 
Nel caso del gas oltre ai dati sui volumi vanno però fatte delle distinzioni. In primo luogo, per alcuni grandi produttori, come Saudi Aramco e Cnpc, il gas estratto è interamente destinato ai consumi interni. In secondo luogo, per chi invece esporta una differenza decisiva sta nell’infrastruttura utilizzata. La natura gassosa del metano ha imposto che per anni il trasporto avvenisse prevalentemente via gasdotto, una modalità rigida che – a differenza del petrolio, che si sposta via nave – restringe le scelte di destinazione. Operano prevalentemente via tubo per esempio Russia, Norvegia e in parte l’Algeria. Una quota ancora limitata ma crescente si sposta ormai anche via nave in forma liquida (Lng). Si tratta di 491 mld mc nel 2020, pari al 12% della produzione globale e quasi la metà delle esportazioni nette. Primo esportatore al mondo via mare è l’Australia (107 mld mc nel 2020), dove Chevron è tra i maggiori operatori. Seguono la Qatargas (106 mld mc) e gli operatori indipendenti USA (62), tra i quali il maggiore è Cheniere. Nel mercato globale Eni è un operatore di rilievo con quasi 11 mld mc venduti nel 2021.
Sul carbone balza subito agli occhi una sproporzione geografica: su 7600 milioni di tonnellate prodotte nel 2020 quasi la metà è in Cina, che assorbe oltre la metà dei consumi (52%). Si concentrano qui anche molti dei maggiori produttori del mondo, primo fra tutti la China Shenhua Energy (291 mln t), con un fatturato di circa 34 mld di dollari. I leader degli altri maggiori paesi produttori sono la Mahanadi Coalfields per l’India (157 mln t), la Peabody per gli Stati Uniti (105), la Suek per la Russia (101), paese da cui viene metà dei circa 400 mln t importati dall’Europa, la Pt Bumi per l’Indonesia (91) e la Glencore per l’Australia (76). 
Ma non ci sono solo le fonti fossili. Anche se ancora ridotta, la quota delle fonti alternative mostra da anni i tassi di crescita più sostenuti. La crisi climatica, in particolare nell’ultimo decennio, ha innescato un ripensamento del sistema energetico per contenere le principali cause di emissioni di CO2 di origine antropica, ossia le combustioni di petrolio, carbone e gas. Secondo lo scenario Net Zero 2050 elaborato a maggio 2021 dall’IEA, se il mondo volesse centrare l’obiettivo di limitare l’innalzamento delle temperature a 1,5°C dovrebbe ridurre a tappe forzate produzione e consumo di idrocarburi, moltiplicare quelli di elettricità da produrre con rinnovabili, sostituire il gas con idrogeno pulito, tagliare drasticamente i consumi e neutralizzare la quota di fossili restante con la cattura delle emissioni. Un cambiamento radicale in un tempo brevissimo, della cui percorribilità gli esperti dubitano. 
In ogni caso, una forte spinta in questa direzione, più sentita in Europa e in Occidente che nei paesi emergenti, si è diffusa a vari livelli del settore, incluso il mercato finanziario, inducendo molti operatori a ripensare la propria attività. Da quasi un decennio, per esempio, le grandi utility elettriche hanno iniziato a rifocalizzare i piani di crescita su nuove direttrici: meno grandi centrali, più fonti rinnovabili, sviluppo anche digitale delle reti locali e servizi alla clientela. Anche se a oggi la gran parte dei loro attivi resta di tipo convenzionale, gli investimenti si sono massicciamente spostati nei nuovi settori, in cui al modello di produzione centralizzato subentra sempre più un approccio diffuso, dove il consumatore diventa a volte micro-produttore locale e l’obiettivo principale diviene integrare attraverso reti intelligenti e sistemi di accumulo fonti a produzione discontinua come eolico e solare.

Don Chisciotte, Teresa Emanuele, 2015

La categoria Electric Utilities del S&P Global Commodity Insights Top 250 Global Energy Company Rankings – che ogni anno analizza società energetiche quotate in base al valore degli asset, ricavi, utili e ritorni sul capitale – sembra riflettere questa tendenza, mettendo in testa operatori come Iberdrola ed Enel, tra i pionieri di questa strategia, con fatturati 2020 rispettivamente di 33 e 65 miliardi di euro. [Tabella 3]

La spinta verso le fonti pulite nel frattempo ha trainato la crescita dei relativi comparti industriali e consentito in certi casi l’emergere di nuovi colossi, pronti a contendere la leadership ai vecchi. Già da alcuni anni le major petrolifere non sono più ai vertici mondiali per capitalizzazione di borsa, con Exxon e Chevron superate non solo dai giganti dell’Ict ma anche dal produttore di auto elettriche Tesla. I cambiamenti in corso mostrano una importante dimensione geografica, con l’emergere di nuove regioni chiave nella mappa dell’energia, prima fra tutte l’Asia. La Cina, in particolare, non è solo il paese dove la domanda rivela la crescita più straordinaria, divorando ogni anno gran parte degli incrementi di produzione delle fonti primarie. La Repubblica Popolare si è imposta come baricentro per diverse filiere della transizione energetica, in particolare il solare e i sistemi di accumulo. [Tabelle 4 e 5]

Nella produzione di turbine eoliche la leadership è di gruppi europei e statunitensi, ma il terzo e quarto posto sono cinesi. Su 35 fornitori globali, 23 hanno sede nella regione Asia-Pacifico, principalmente Cina e India. La Cina è inoltre la base principale per la produzione di componenti e un hub globale per l’export di generatori, pale e riduttori. Nei moduli solari, la predominanza cinese è schiacciante: nel 2020 solo due operatori sui primi dieci non sono cinesi (Canadian Solar e First Solar), e tra i produttori di celle fotovoltaiche lo sono tutti i big: Tongwei, Aiko, Runergy, Solar Space e Shanxi Luan.

Situazione meno monocolore, ma sempre con forte preminenza dell’Asia si trova nel comparto dell’accumulo elettrochimico (batterie), strategico per le applicazioni elettriche del futuro. Lato chimica, i due maggiori produttori di batterie sono cinesi (Catl e Byd) seguiti dalle coreane Samsung, LG e SKI e dalla giapponese Panasonic. Nella Tabella 6 la classifica dei primi dieci fornitori di batterie per veicoli elettrici nel 2021, che hanno coperto da soli il 91% dei 296 GWh venduti nel mondo.

Per l’Occidente va meglio nel campo dell’Epc, ossia la progettazione, fornitura e costruzione di sistemi di accumulo di varia taglia per usi industriali, di bilanciamento rete o domestici, settore in cui tra i leader troviamo Fluence, joint venture tra la coreana Samsung e la statunitense Aes, la finlandese Wärtsilä, la Nhoa, nata in Italia e acquisita negli anni prima da Engie e poi dalla taiwanese Tcc, senza dimenticare Tesla. Tuttavia, la centralità dell’Asia resta evidente. Una sproporzione figlia degli ingenti investimenti dei paesi del Far East in queste filiere e nelle connesse materie prime, che l’Europa dovrà cercare di bilanciare, scriveva la Commissione UE a fine 2020 in una comunicazione sulle materie prime critiche.

Il rischio è di incorrere per le tecnologie verdi in forme di dipendenza dall’estero paragonabili a quella attuale per i combustibili.