07.05.2019 Alessandro Profumo

Saper fare saper pensare

In questa scelta si coglie l’essenza del progetto: contaminare le due culture, quella umanistica e quella scientifica, per arricchirle entrambe.

Voglio rileggere con voi alcuni passi di una lettera che Luraghi scrisse a Sinisgalli un anno dopo: «Non esiste in Italia né, credo, altrove una pubblicazione come questa, in cui vediamo il poeta stupirsi di una caldaia a vapore, l’ingegnere godersi i meccanismi di vecchi catenacci, l’architetto escogitare alfabeti nuovi, il matematico creare topi elettrici, il pittore bambino raffigurare fate e angeli al posto di macchine e uomini. È il gioco pericoloso della vita visto in un castello incantato, la bellezza dello stupore e dell’ottimismo: i numeri si trasformano in magici segni pieni di mistero, perdono la loro aridità tradizionale per rivestirsi di un nuovo fascino e le cifre della produzione dell’acciaio, le formule costruttive, i guai dell’esportazione, i bilanci, cioè i nostri guai di tutti i giorni che ci fanno patire e maledire, nella tua atmosfera si tramutano in amici cordiali, semplici e un tanto trasognati».

E più avanti: «E in questo fantastico lavorio tu hai colto la civiltà, ammonendo che hanno lo stesso valore Marconi e Picasso, il motore atomico e la prima ingenua figurazione astratta dell’uomo delle caverne, uno e un miliardo». Tali parole hanno consacrato nei fatti un approccio innovativo e intellettualmente raffinato, stimolando un ambiente di libero confronto tra due mondi differenti, ma al contempo complementari.

Seppure in un contesto diverso, le motivazioni per la rinascita di “Civiltà delle Macchine” sono, oggi, le stesse di 66 anni fa: riflettere sul rapporto tra scienza, tecnologia e uomo, creando un luogo di incontro interdisciplinare e aperto alla contaminazione, favorendo così la nascita di un “umanesimo digitale”, in cui il saper fare sia importante almeno quanto il saper pensare, in un dialogo serrato tra industria e cultura e tra tecnologia ed estro creativo.

Penso che ciò sia ancor più importante oggi, in un’epoca in cui l’alta tecnologia occupa uno spazio centrale non solo nel garantire il corretto funzionamento delle infrastrutture nevralgiche dei nostri sistemi socioeconomici, ma anche nella formazione e diffusione delle idee, offrendo possibilità mai sperimentate prima d’ora di far viaggiare conoscenza e cultura tra le donne e gli uomini del XXI secolo. Certo, a questi benefici si accompagnano nuovi interrogativi. Basti pensare che l’impatto globale della rivoluzione digitale è tanto pervasivo da arrivare a influenzare persino la sfera politica. Non solo, sempre più forte è la percezione che le nuove tecnologie portino a una crescita economica senza creare lavoro o, peggio, a una concentrazione di ricchezza mai vista in fasi precedenti. Senza considerare che la nostra nuova “dipendenza” dalla rete sta crescendo più rapidamente della nostra abilità a renderla sicura, esponendoci a nuovi rischi e incognite.

L’esigenza di dare una risposta a queste domande è molto sentita in un’azienda industriale come Leonardo. Per sua natura e vocazione storica, la nostra azienda è, infatti, figlia di quella “civiltà delle macchine” che non è solo rintracciabile negli anni della sua fondazione – quelli della Ricostruzione e della nuova vita della tradizione manifatturiera del nostro paese – ma che affonda le proprie radici in un codice genetico assai più antico: la dimensione artigianale della propria produzione, ricollegata alle “botteghe” del Rinascimento, quelle fucine di apprendimento di antichi e nuovi saperi in cui non esisteva un confine disciplinare tra inventiva tecnica e creazione artistica.

Nella bottega del Verrocchio, nella Firenze del XV secolo, lavoravano fianco a fianco Leonardo, Botticelli, Perugino, Ghirlandaio, per produrre opere d’arte, di architettura e di ingegneria e per soddisfare le richieste delle corti rinascimentali dell’epoca, dando vita a una straordinaria esperienza di rinnovamento culturale e scientifico.

Il nostro modo di lavorare si inserisce proprio nel solco di questa grande tradizione. Tanto nella trasmissione del “saper fare” – con i nostri laboratori e centri di ricerca dove i neofiti si avvicinano alla complessità e alla bellezza di ciò che facciamo – quanto nell’innovazione tecnologica, che nasce dall’incontro di svariate professionalità, dall’ingegnere al designer, dal chimico al matematico e all’esperto ambientale.

Il filo che ci unisce a quella “tradizione artigianale” si snoda ancora nel nostro continuo confronto con il cliente per disegnare e sviluppare insieme la soluzione più adatta, così come un tempo avveniva nella relazione tra committente e artista: un modo di lavorare che mette le persone al centro del processo, con le loro esigenze e le loro intuizioni, fino a creare un pezzo unico o, se vogliamo, un capolavoro tecnologico, nel quale la sapienza dell’artigiano si coniuga con la specializzazione del tecnico.

La nostra costante passione per il prodotto di qualità ci fa quotidianamente rivivere lo spirito della “Civiltà delle macchine”, attualizzandone il messaggio e traendone nuova linfa per il lavoro nostro e delle generazioni alle quali un giorno passeremo il testimone, in un intreccio fecondo e costante tra creatività dell’ispirazione e rigore dello studio e della tecnica, che sappia dar forma alle molteplici realizzazioni dell’ingegno umano.

Sono convinto quindi che questa seconda vita della rivista potrà essere utile per tutti noi, per crescere umanamente e professionalmente e per arricchire le comunità in cui viviamo. Nell’era digitale, riprendere il tema della “civiltà delle macchine” è ancora più necessario e urgente: per affrontare la complessità del momento, coglierne le opportunità e costruire insieme un futuro sostenibile.

In copertina: Energizer “Soul”, Ronald A. Westerhuis, 2018, scultura murale in acciaio inossidabile della serie Stardust