09.11.2022 Ginevra Leganza

Lavoratori in fuga: dalla hustle culture al nomadismo digitale

Di cosa parliamo quando parliamo di hustle culture?

La hustle culture (tradotto alla lettera: cultura del trambusto) è una locuzione che riassume l’attitudine frenetica nel lavoro. Uno dei costumi più critici della contemporaneità riguarda proprio la devozione totalizzante all’attività lavorativa. La professione non investe solo il tempo trascorso in ufficio, ma anche le ore che dovrebbero essere dedicate ad altro. Col digitale la connessione è un dato certo e costante, ed è sempre più difficile marcare una cesura fra lavoro e tempo libero. Ecco dunque una nuova espressione, concepita per riassumere l’attenzione smisurata che l’uomo contemporaneo ha nei confronti della vita professionale.

La hustle culture nel paradosso fra social e vita sociale

Nella complessità dei nostri tempi, in cui fisico e digitale si amalgamano in un’aura indistinta, i paradossi non sono eccezione ma regola. E il paradosso è per l’appunto nel luogo naturale – vista la sensibilità dei più giovani – in cui il tema della hustle culture si fa strada. Parliamo del social network, naturalmente. E soprattutto del social cinese TikTok: piattaforma alle cui spalle vige una politica lavorativa decisamente hustle. Se le generazioni più giovani lanciano l’hashtag “QuitTok” (raccontando le proprie esperienze con chiaro riferimento al fenomeno delle “grandi dimissioni”), d’altro canto lo stesso hashtag fluttua su un’app che richiede ai suoi dipendenti uno stacanovismo a tratti militaresco.

La Silicon Valley, insomma, è solo uno dei due poli di questa faccenda se pure la Cina (che lambisce i nostri stili di vita anche a mezzo social) è patria d’elezione dello spirito hustle. Un’inchiesta recente del Wall Stret Journal affronta le condizioni di lavoro alle spalle di TikTok non esitando a parlare di “ansia, segreti e implacabili pressioni” sui lavoratori. Si racconta di filosofie aziendali impartite dai superiori agli impiegati, esortati a considerare ogni giorno di lavoro il “giorno 1”. Così come dell’obbligo di 85 ore di meeting a settimana fra comparti cinesi e statunitensi. Queste e altre sono le testimonianze di chi ha tagliato la corda per non soccombere al mancamento psicofisico. Il cosiddetto burnout.

Che cosa succede in Italia?

Ironico è che un movimento lavorativo contrastante le tendenze allo sfruttamento e all’autosfruttamento (workaholism, la dipendenza da lavoro) abbia preso piede sui social network, animando un’inedita coscienza di classe nelle fasce più giovani della popolazione mondiale. Ma cosa succede nel nostro Paese?

Sebbene in Italia il fenomeno della Great Resignation (le dimissioni di massa senza la certezza di un lavoro futuro) sia avvenuto in misura decisamente minore rispetto agli USA, si registra comunque un forte malcontento per le condizioni lavorative. Il CENSIS parla di “dimissioni rinviate” dal momento che per gli Italiani, tutto sommato, “il pragmatismo ha vinto sulla tentazione della Great Resignation”. Ciononostante l’82% dei lavoratori (86% fra i giovani) dichiara insoddisfazione e ritiene di meritare di più. Un livello di retribuzione inadeguato e in stallo rispetto alla media europea – misto allo stress per l’instabilità – accresce il senso di scoramento e alimenta nei giovani l’idea di una cultura tossica del lavoro.

Il lavoro del futuro. Una nuova figura: il nomade digitale

All’indomani degli scossoni che hanno accompagnato l’ingresso in questo nuovo decennio, il malcontento ha tirato le somme, aprendo le strade a tendenze nuove nel mondo del lavoro. A nuovi stili di vita e nuovi protagonisti dell’avvenire. Fra questi spicca il nomade digitale. Grazie alla sharing economy e al lavoro da remoto, risulterebbe meno ostico coniugare il lavoro a un ritmo di vita più sostenibile per l’individuo.

Per nomadi digitali, in epoca ante Covid, si intendevano perlopiù freelance: traduttori, copywriter, programmatori e chiunque fosse in grado di lavorare “da casa”. Ma dal 2020 in poi la definizione risulta molto più ampia e sfaccettata.

Già nel luglio 2021 l’Associazione Italiana Nomadi digitali – un ente promotore del neonomadismo nel nostro Paese – fotografava la situazione, raccontando il profilo di questi uomini e donne compresi fra i 30 e 60 anni. Destinati, forse, a rivoluzionare l’etica del lavoro. Assai meno nomadi si riscontrano fra gli under 30. Ma occorre tener conto di un altro aspetto: la maggior parte di loro hanno un alto grado di scolarizzazione (57% ha almeno una laurea; 26%, un master) e dunque svolgono lavori che richiedono più risorse e più tempo da investire nella formazione. Dal rapporto emerge poi che i nomadi digitali italiani manifestano una forte versatilità, lavorando spesso in più di un settore (primo dei quali è “comunicazione e marketing”; fra gli altri: blockchain, data analyst, e-commerce; software; sviluppo e IT). Ma il dato più interessante e complementare al discorso sulla hustle culture riguarda le motivazioni incentivanti il nomadismo: flessibilità, possibilità di lavorare dall’estero e arricchirsi di “competenze trasversali”, opportunità di coniugare il lavoro al proprio stile di vita.

S’intende dunque come l’esistenza intima vada a mescolarsi all’attività lavorativa. In una tensione sempre più orientata al benessere, volta a “disintossicare” l’universo professionale, trasformandolo radicalmente.

 

Credtis Copertina: Peggy Anke su Unsplash