08.04.2024 Luciano Violante

Lettera da Kronborg

La nostra generazione sta come Amleto sugli spalti del castello di Kronborg; dopo aver ricevuto dallo spettro del padre la verità sul suo assassinio da parte dello zio, il principe di Danimarca riflette angosciato: «Il nostro tempo è fuori dei cardini. Una maledetta iattura che io sia nato per rimetterlo in sesto». 

A volte sembra che anche il nostro tempo sia fuori dei cardini. Non è facile ricollocarlo; tuttavia ogni generazione ha il dovere di governare il tempo che vive.

Non abbiamo mai avuto tante guerre tutte insieme; le democrazie si sono ridotte nel numero e indebolite nella capacità di governo; due terzi del mondo vedono l’Occidente come nemico, o, nella migliore delle ipotesi, come estraneo; le migrazioni aprono conflitti apparentemente ingestibili tra diritti umani ed effettive possibilità di accoglienza. Tuttavia, siamo forse in una delle fasi della storia dell’umanità più ricca di sviluppi tecnologici. Da un lato si fanno strada le falci sanguinanti delle guerre, dall’altro la tecnologia ci consegna ogni giorno strumenti nuovi per vivere meglio, per imparare meglio, per curarci meglio.

Fermiamoci al digitale, ma riflessioni analoghe possono valere per lo Spazio, i fondali marini o la medicina. Sino agli anni Ottanta non avevamo nessuna delle tecnologie digitali che oggi sono parte irrinunciabile del nostro stile di vita e di lavoro. Google è del 1991; nello stesso anno compare il World Wide Web; il GPS, navigatore satellitare, è operativo dal maggio 2000 dopo un decreto del presidente Clinton; il primo iPhone è stato presentato da Steve Jobs nel gennaio 2007; nel 2006 compare Twitter, mentre Facebook è del 2004 e Instagram è stata lanciata nel 2010. Le blockchain sono del 2009; la piattaforma Zoom è stata fondata nel 2011; TikTok è del 2016; ChatGPT è del novembre 2022. Siamo in una permanente transizione tecnologica, che rende rapidamente obsoleti i diversi tentativi di regolazione. Bisogna essere prudenti con le classificazioni, ma la prudenza non può esimerci dal dovere umano di interrogarci sul senso degli anni che stiamo vivendo. L’insieme delle trasformazioni sta determinando mutamenti profondi nel modo di intendere il tempo, le relazioni e gli stili di vita.

Il papa ha parlato di cambiamento d’epoca. La definizione coglie il carattere strutturale dei mutamenti. Proprio per questa ragione, quelle che oggi definiamo crisi, della democrazia, della scuola, dei valori umani, potrebbero essere non declini, ma passaggi, transizioni, faticosi adattamenti al nuovo. Sta a noi decidere. Se li guideremo, saranno transizioni; se saremo solo spettatori, saranno declini e verremo travolti. Non basta la buona predisposizione d’animo. Perché siano transizioni occorrerebbe interrogarsi sul punto d’arrivo. Transizioni verso dove e con quale bussola? Il tema è la questione umana nel cambiamento d’epoca. Di fronte alle migliaia di morti per guerre che stanno devastando una parte grande del mondo a noi più vicino, come difendiamo la vita? Di fronte all’impetuoso sviluppo delle tecnologie, come manteniamo la capacità di orientamento dei valori umani rispetto alla tecnica?

Non c’è errore più grande dell’inerzia. Le nostre società, spinte da scienza e tecnologia, narcisiste per il predominio della immagine sulla parola, prigioniere di pensieri brevi per la frammentazione dell’esistenza quotidiana, non introiettano più il concetto di responsabilità. 

Eppure la consapevolezza potrebbe indurci a una pausa; attendere, fermare l’azione, connettere i concetti e i fatti, radunare i fili, andare oltre il momento. Nel circuito di un vitalismo spesso fine a sé stesso, orfano di pensiero, i rischi dello schiacciamento dei valori dell’uomo, sotto il peso della pura forza o della pura tecnica si moltiplicano. Perciò serve un’etica della vita, non della vita come categoria astratta, ma della mia vita, delle nostre vite, quelle che concretamente viviamo giorno dopo giorno. La questione umana oggi si sostanzia nella capacità di difendere l’autonomia umana, contrapponendo alla guerra il destino dell’uomo, e integrando con il destino dell’uomo la ricerca scientifica.

Al centro va posta la cultura della vita. Cultura della vita significa reclamare innanzitutto la difesa della vita come dovere prioritario delle autorità politiche. Occorre ricostruire, laicamente, la sacralità della vita per non diventare preda del cinismo. Si compiono in questa direzione, a volte in buona fede, errori di civiltà. 

Si tratta delle cosiddette campagne per la vita, apparentemente vestite di religiosità, ma in realtà abbigliate con i panni del bigottismo. Se il presupposto è che ci siano valori non negoziabili, cioè non suscettibili di argomentazione nello spazio pubblico, se non si può prescindere dalla vita come dono divino, pur difendendone la sacralità, o dalla criminalizzazione della donna che è sul crinale della dura scelta tra l’aborto e la nascita, è chiaro che non si vuole costruire una società della vita, ma sviluppare aggressive ideologie di potenza.

Contro la guerra chiediamo la pace. Ma la vita vale più della pace perché riguarda le persone, mentre la pace riguarda gli Stati. Le ragazze iraniane, chiuse in un carcere perché hanno gridato “donne, vita, libertà”, non vogliono la pace, vogliono la vita, perché dalla vita nasce la libertà e la pace può anche essere il deserto di cui parla Tacito. Forse quelle ragazze sono più avanti di noi. Non parlo di leggi, parlo di una cultura civile nuova, rispettosa e profonda della vita, da costruire attraverso il libero dibattito pubblico. Noi occidentali del XXI secolo, fiduciosi nelle virtù della democrazia formale, tendiamo a identificare ciò che è buono e giusto con ciò che non è vietato dalla legge e ciò che è male con quello che la legge proibisce; sicché ci sentiamo sollevati dalla responsabilità morale di decidere noi stessi che cosa sia buono e che cosa non lo sia. Oscilliamo tra spinte contraddittorie, che da un lato tendono alla iper regolazione della vita sociale e dall’altra al permissivismo liberale. Si accorcia la necessaria distanza critica tra legge, morale e religione; si formano grumi e la questione umana resta sullo sfondo. Ma senza quelle distinzioni viene meno la comprensione della natura dei problemi. Dobbiamo rinvenire in noi stessi una coerenza morale capace di rimettere il tempo sui suoi cardini. Come Atena, nel giudizio su Oreste, assassino della madre, inseguito dalle Erinni vendicatrici, che convinse le antiche dee a unirsi alla nuova vita della città, diventando Eumenidi, perché si interrompesse la tragica catena del male per la costruzione di un futuro di libertà.