01.12.2022 Ginevra Leganza

Una nuova etica del lavoro?

All’indomani della pandemia: il fenomeno della “Great resignation”

Gli anni Venti di questo secolo sono arrivati con la potenza di un’onda anomala. Hanno travolto abitudini, aspirazioni, stili di vita. Il concetto di lavoro non riemerge illeso. In Italia e nel mondo l’idea dell’occupazione è andata – e continua ad andare – incontro a un mutamento che potrebbe essere radicale. La pandemia di Covid-19 ha rimodulato, per molti esseri umani, il cosiddetto work-life balance, favorendo il secondo dei due elementi. Quello della vita, dove per “vita” si intende tutto quanto contribuisce al benessere dell’individuo.

“Great resignation”. È questo il nome di grande marketing strategico che negli Stati Uniti è stato dato al fenomeno delle dimissioni volontarie di massa. In epoca post-pandemica, guardando a report e ricerche, un numero crescente di persone ha preso le distanze dalle frenesie lavoristiche. Nell’agosto 2021 il numero di dimissionari statunitensi è stato superiore del 19% rispetto a quello del 2020. Secondo una ricerca della società di consulenza strategica McKinsey, sempre nel 2021, il 40% degli occupati a livello globale voleva cambiare occupazione.

Il tema è complesso e le ragioni sono profonde, ancora oscure, ma uno studio del Pew Research Center rileva come alla base del disagio ci sia spesso la bassa retribuzione e la mancanza di rispetto sul luogo di lavoro, nonché la ricerca di un ambiente più flessibile, volto a ribilanciare il rapporto casa-ufficio, evidentemente riconfiguratosi in tempo di Covid. In altri casi si palesa anche l’ambizione di un avanzamento di carriera. Il fenomeno è in atto, in piena fase di sviluppo.

Le dimissioni italiane

Venendo all’Italia, apprendiamo come anche il nostro Paese sia nel solco di questa tendenza, che non è detto porti a cambiamenti strutturali, ma certo avrà degli effetti. Stando al report del Workmonitor di Randstad sul mondo del lavoro in 34 Paesi, il 29% dei lavoratori italiani è alla ricerca di una nuova occupazione. La percentuale si alza notevolmente nella fascia di età corrispondente alla generazione “millennials” (38%). Il 24% mette in conto di iniziare presto la ricerca (anche la maggior parte di questa frangia è costituita da giovanissimi). Il report fornisce elementi anche sotto l’aspetto esistenziale. Il 77% degli italiani considera il lavoro “importante nella vita”. Ma solo il 49% di loro vede nel mestiere una corrispondenza con la propria identità. Per il 60% la vita lavorativa è di secondaria importanza rispetto alla vita “personale”. Più della metà – potendo scegliere – non lavorerebbe affatto.

Una proposta allettante si aggira per il mondo: la settimana corta

Considerando i cambiamenti di costume e mentalità, nel giugno 2022 il governo britannico annuncia di aver supportato un progetto di “sperimentazione” della settimana corta consistente nel lavorare un giorno in meno (4 giorni anziché 5, ma con pari stipendio) per analizzare gli effetti sulla produttività.

Ma già prima di Londra altri Paesi si erano misurati con la riduzione delle ore di lavoro settimanali. In Islanda il test durò dal 2015 al 2019 e il risultato – con 35 ore settimanali – era stato quello di una maggiore produttività a parità di salario: oggi l’86% dei lavoratori, se ne ha l’occasione, sceglie questo tipo di soluzione in grado di bilanciare vita lavorativa e famigliare. Anche il Belgio, nel 2022, introduce la possibilità della settimana di 4 giorni. Bruxelles aveva già formalizzato il “diritto alla disconnesione”, ossia la possibilità di non essere reperibili fuori da luoghi e orari di lavoro. Nel caso belga le ore lavorative non vengono ridotte ma condensate in meno giorni – previo accordo fra datore di lavoro e dipendente – al fine di agevolare la vita famigliare e privata. A seguire la Spagna, su sollecitazione e trattative del partito di sinistra Más País, inizia un test della durata di tre anni per ridurre la settimana lavorativa a 32 ore. Colpisce che finanche in Giappone, il Paese del karoshi (fenomeno simile ma più grave a quello che in occidente chiamiamo burnout), aziende come Microsoft e Panasonic si siano aperte alla possibilità dei 4 giorni. Nel maggio di quest’anno, poi, il sottosegretario per la comunicazione e le relazioni internazionali degli Emirati Arabi, Rashid Abdullah Al Nuaimi, annunciava la settimana lavorativa di 4 giorni e mezzo per uffici pubblici, scuole, settore finanziario e presto anche il settore privato: “Crediamo che sia un bene per i dipendenti e le loro famiglie”, così il sottosegretario. Ancora aperte si dimostrano Scozia e Nuova Zelanda. La prima con un test proposto dallo Scottish National Party che avrà inizio nel 2023 e prevederà un finanziamento di 10 milioni di sterline; la seconda con un appello rivolto dal primo ministro Jacinda Arden alle aziende.

I valori di oggi sono i lavori di domani

A fronte di questi dati sul presente, occorre domandarsi quale futuro pensare e costruire. È evidente che i parametri dell’etica lavorativa, sinora accettata, risultino scalfiti.

Non solo le professioni di domani, ma anche il modo in cui queste verranno svolte potrebbe integrarsi con un nuovo paradigma assiologico, un inedito assetto valoriale. L’acronimo YOLO (you only live once, vivi una volta sola) non è più appannaggio di hashtag di Instagram e TikTok. YOLO diventa la sintesi di una possibile visione del mondo. La cosiddetta YOLO Economy sembra tracciare i contorni di un sentimento in ascesa che mira a subordinare il lavoro alla realizzazione delle aspirazioni individuali, al benessere imprescindibile dal tempo libero vissuto nella forma dell’otium. Chissà se con l’incedere dell’innovazione tecnologica, saremo dunque più “greci”, più liberi dalla fatica. Sono scenari ben accolti da insigni studiosi. Domenico De Masi, Maurizio Ferraris, Luciano Floridi pongono l’attenzione sull’impatto positivo delle nuove tecnologie, sul riassestamento del rapporto vita-lavoro e lavoro-retribuzione.

I greci conoscevano la dimensione della schole, del tempo libero vissuto all’insegna della teoresi.

Ed è significativo un punto, in questo parallelismo. Gli schiavi che ad Atene consentivano ai liberi di esercitare la mente sarebbero sostituiti, oggi, dai robot, parola di origine ceca (robota) indicante il lavoro pesante o il lavoro forzato.

Chi si interroghi su quali lavori si affermeranno nei prossimi decenni non può farlo senza tener conto dei valori di oggi. Quale sarà e quanto peserà il ruolo della ri-creazione? Domanda alla quale solo il tempo darà una risposta definitiva, ma che certo urge porre agli abitanti del mondo venturo.

 

Credits Copertina: Ant Rozetsky su Unsplash