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29.09.2020 Giacomo Bottos

WeChina l'avvenire che ci attende. Intervista a Simone Pieranni

Intelligenza artificiale, smart cities, “superapp” come WeChat, questi sono gli strumenti che la Cina sta usando per scrivere il suo – e il nostro – futuro. 

Oggi, infatti, si vedono i frutti di un processo avviato negli anni Ottanta, quando la Cina inizia a investire su ricerca e tecnologia, rafforzando anche il ruolo sociale degli scienziati. Ne abbiamo parlato con Simone Pieranni, autore di “Red Mirror, il nostro futuro si scrive in Cina” (Laterza, 2020) e fondatore dell’agenzia editoriale China Files.

In molti ambiti della frontiera dell’innovazione tecnologica, dall’IA alle smart cities, la Cina sembra ormai in grado non solo di confrontarsi ma anche di sfidare la supremazia tecnologica occidentale. Questa sfida si basa su un ecosistema tecnologico “con caratteristiche cinesi”, che presenta significative differenze con il modello statunitense simboleggiato dalla Silicon Valley. Quali sono i punti caratterizzanti del modello di innovazione cinese?

Innanzitutto evidenzierei come la Cina abbia potuto dare vita a più Silicon Valley nel corso della sua storia recente. Sfruttando le proprie caratteristiche territoriali, ha concesso sgravi fiscali nelle zone più depresse, rimaste indietro anche a seguito del periodo dell’apertura e delle riforme. Questo ha favorito la creazione di hub tecnologici, grazie agli investimenti di aziende locali e straniere. La differenza principale rispetto al modello occidentale e alla sua cultura liberal, con elementi anarco-capitalisti, è che in Cina i processi dell’innovazione avvengono soprattutto secondo una logica top-down, con una forte dipendenza dagli input che arrivano dal centro.

Un altro elemento caratterizzante lo sviluppo tecnologico cinese è stata la possibilità da parte del governo di escludere o limitare ai big player internazionali l’accesso al mercato, che nel tempo è diventato sempre più complicato e articolato. Ciò ha consentito alle aziende locali cinesi di rafforzarsi facendo gavetta nel mercato nazionale, per poi avere la forza di conquistare quelli internazionali. Un ultimo aspetto riguarda il controllo ideologico esercitato dal partito sull’intero processo. Se già dalla fine degli anni Ottanta sono stati destinati ingenti contributi per il finanziamento di progetti di ricerca e sviluppo, questo è sempre avvenuto mantenendo un forte controllo su ciò che veniva realizzato.

Possiamo vedere nella crisi del 2008 uno spartiacque che induce un cambiamento nel modello di sviluppo cinese e pone le premesse per la situazione attuale? Attraverso quali passaggi è avvenuta la transizione da una Cina “fabbrica del mondo” a un paese che cerca di collocarsi nelle fasce più alte della creazione di valore?

Sicuramente il 2008 è una data fondamentale. La crisi economica che ha investito l’Occidente ha colpito la Cina di rimbalzo: sono diminuiti gli ordini e questo ha ridotto la forza delle esportazioni, che fino a quel momento erano il driver principale dell’economia cinese. Da lì è iniziata una tendenza a trasformare la quantità in qualità, sviluppando al tempo stesso il mercato interno. La Cina ha inoltre deciso di investire molto di più di quanto già non facesse sulla ricerca e sulla tecnologia, accelerando fortemente una tendenza iniziata fin dal 1989, quando anche le posizioni sociali di scienziati e intellettuali erano state rafforzate. Dal 2008 emerge con decisione la volontà di imporsi nella parte superiore della filiera internazionale, di produrre tecnologia esportabile di qualità, invece di limitarsi alla mera produzione di componenti destinati all’assemblaggio, come in precedenza. In questa fase si afferma anche quella classe media, formata in buona parte dall’intelligencija del mondo digitale cinese, che rappresenta l’opinione pubblica favorevole al governo di Xi Jinping.

La valutazione espressa da una parte significativa degli analisti occidentali negli ultimi decenni prevedeva che all’affermarsi dell’economia di mercato avrebbe fatto seguito una liberalizzazione sul piano politico. Questa previsione si è rivelata sostanzialmente errata. Quali elementi erano stati sottovalutati da chi propugnava questa tesi?

Quella è stata la prima di una serie di illusioni nutrite dagli occidentali, e in particolare dagli americani. Dopo le aperture promosse da Deng Xiaoping e l’inizio di una stretta collaborazione economica, gli studenti cinesi hanno iniziato a formarsi all’estero, mentre venivano promosse estensivamente joint venture con aziende americane miranti a ottenere know-how. Questo obiettivo è stato perseguito in seguito anche attraverso investimenti diretti all’estero, con acquisizioni di società. In questo lungo arco di tempo gli Stati Uniti hanno sottovalutato il fatto che tale processo avvenisse sotto il saldo controllo del partito. Deng Xiaoping, leader geniale e dalla spiccata creatività politica, aveva alimentato la convinzione diffusa che le aperture e le riforme avrebbero trasformato la società cinese. In realtà non si è mai allontanato dal maoismo per quanto riguarda il ruolo centrale del partito rispetto alla società cinese. È proprio all’epoca delle proteste dell’’89 che si è costituito il patto sociale che ancora oggi regge la Cina, che prevedeva un continuo miglioramento delle condizioni economiche a fronte della rinuncia a una serie di diritti. Con l’affermarsi di internet si è diffusa l’illusione che sarebbe stata la rete a indebolire la presa del partito. È successo l’opposto: il web è diventato un’arma di propaganda e uno strumento di controllo sociale. Anche qui si è verificata un’analoga sottovalutazione delle capacità della dirigenza cinese.

Un fattore rilevante del successo cinese sembra risiedere nella capacità delle classi dirigenti di avere un’ottica di lungo periodo, di anticipare e governare i cambiamenti. Quali sono i fattori che favoriscono questo stato di cose, anche rispetto alle democrazie occidentali?

Certamente se un politico deve pensare alla sua rielezione già dopo pochi anni è più difficile concepire piani di lungo periodo come avviene in Cina. Ma forse non è questo il punto decisivo. Il nodo cruciale è da ricercare nel sistema valoriale. Le radici del vero legame culturale e sociale in Cina, infatti, vanno ancora ricercate nel confucianesimo, nell’idea che esista un ordine naturale nell’ambito del quale l’individuo non dev’essere d’ostacolo al bene della collettività. I processi top-down di cui parlavo in precedenza trovano riscontro e seguito nella popolazione perché è convinzione diffusa che non vi sia motivo di contrastare un’indicazione che viene dall’alto, se si presume che essa sia nell’interesse collettivo. Certo, anche nella cultura cinese è contemplata la possibilità di revocare il mandato: la storia della Cina è piena di rivoluzioni e di rivolte contro il potere imperiale. Ma in generale, nel momento in cui un potere viene percepito come ago della bilancia, come centro fondamentale in grado di evitare il caos, le persone agiscono di conseguenza. Se in passato questo tessuto valoriale aveva ostacolato lo sviluppo tecnologico, nel momento in cui quest’ultimo è stato percepito come un obiettivo condiviso, questa cultura diffusa è diventata un fattore di accelerazione, spingendo la totalità della popolazione a lavorare in questa direzione.

Immagine del progetto Liuzhou Forest City di Stefano Boeri Architetti

Un elemento peculiare che emerge dalla tua analisi è il sincretismo, molto presente nella società cinese, tra elementi, abitudini e codici tradizionali e rapidissimo cambiamento. Quali sono i fattori di questo singolare equilibrio?

Una caratteristica peculiare della cultura cinese è la propensione alle sfumature. Dopo la fase dell’apertura, per rispondere a un certo vuoto identitario che si era creato, si sono promosse sintesi valoriali e culturali costruite sfruttando materiali provenienti da diverse tradizioni precedenti. Il concetto di società armoniosa, promosso da Hu Jintao, consentiva di concepire il confucianesimo come compatibile con la tecnologia. Lo sviluppo tecnologico, secondo questa concezione, consente alla società di essere ancora più armoniosa: le città diventano più intelligenti, i crediti sociali rendono l’ecosistema sociale maggiormente basato sull’affidabilità, sul rispetto dei ruoli e delle aspettative reciproche. Lo stesso maoismo, in alcuni suoi aspetti, è stato ripreso e adattato alla realtà cinese contemporanea. In tale contesto è anche nata una realtà di mercato peculiare, complicata da comprendere per un osservatore esterno. Si è innescato un processo quasi darwiniano, con una competizione sfrenata. Al di là della censura operata dal governo, molte aziende occidentali hanno incontrato numerosi ostacoli in Cina proprio per questa complessità del mercato, per la difficoltà di capire il suo funzionamento e le esigenze della popolazione. Esistono infatti prodotti tecnologici che restano sul mercato cinese, come WeChat, mentre invece TikTok rappresenta un esempio di un algoritmo creato in Cina che riesce a incrociare i gusti occidentali. È una realtà molto complessa e composita, rispetto alla quale questi aspetti culturali rappresentano un elemento fondamentale.

Credits Copertina: Immagini del progetto Liuzhou Forest City di Stefano Boeri Architetti