28.05.2020 Mattia Cavanna

Astri nascenti della scienza italiana alla NASA. Tre astrofisiche si raccontano

A pochi chilometri dal centro di Washington c’è la sede di uno dei più importanti laboratori di ricerca aerospaziale del mondo, il Goddard Space Flight Center della NASA

Qui, dove si progettano e si utilizzano gli strumenti più all’avanguardia per studiare lo spazio e dove operano alcuni tra i migliori scienziati, ingegneri e tecnici, lavorano tre giovani e brillanti astrofisiche italiane. Abbiamo avuto l’opportunità di riflettere con Eleonora Troja, Gioia Rau e Sara Faggi sui loro percorsi professionali, sugli obiettivi della ricerca, tra ostacoli e aspirazioni, ma anche di parlare di creatività, arte e vita quotidiana di chi ogni giorno lavora per dare qualche risposta in più su quel mistero insondabile da cui proveniamo: l’universo.

Quali sono i vostri ambiti di ricerca?

G. R. La mia ricerca si incentra sullo studio della polvere di stelle. Mi interessa analizzare i composti chimici delle atmosfere di stelle morenti che, successivamente, andranno a formare supernove o nebulose planetarie. Si tratta di gas/polveri rilevabili nell’inviluppo circumstellare, la cui presenza fornisce indizi fondamentali sull’evoluzione e la perdita di massa di questi corpi celesti. È materia che andrà poi a costituire nuove stelle e sistemi planetari, in un processo definibile come “riciclo cosmico”. Come diceva Carl Sagan: «Siamo tutti polvere di stelle».

S. F. La mia ricerca si focalizza sulla composizione chimica delle comete, oggetti primordiali, residui quasi intatti delle prime fasi evolutive del nostro sistema solare. Originariamente la Terra era un luogo molto diverso da come ci appare oggi: formatasi in una zona del nostro sistema planetario priva di acqua liquida,

quest’ultima sembrerebbe essere stata trasportata insieme ad altro materiale organico, proprio tramite oggetti come le comete. Le prime forme di vita terrestri, infatti, apparvero dopo il periodo del bombardamento cometario avvenuto circa 3,9 miliardi di anni fa. Lo studio della composizione cometaria è ritenuto oggi essenziale per la comprensione dell’origine e dello sviluppo della vita sulla Terra, poiché tale materiale organico è considerato necessario per la formazione di molecole complesse come proteine e aminoacidi.

E. T. Il mio lavoro consiste nello studiare le esplosioni stellari analizzandone le fasi finali della loro esistenza nel momento in cui, con il rilascio dei lampi gamma, danno origine ai buchi neri. Tali fenomeni sono ricchi di informazioni preziose per chi indaga le dinamiche dell’universo, ma sono difficili da scovare poiché non sappiamo a priori dove e quando avverranno.

Quali strumenti vi aiutano a trovare queste esplosioni?

E. T. Ci aiuta il satellite Swift che scruta costantemente l’universo e mi avvisa tramite l’invio di un SMS.

Il satellite ha il tuo numero di cellulare?

E. T. Sì diciamo così, un sistema automatico mi manda sul cellulare un messaggio con le coordinate celesti dell’esplosione. La segnalazione mi arriva in ogni caso, che io sia negli uffici della NASA o a casa. Ho impostato una suoneria molto forte e riconoscibile sul cellulare per evitare di mancare all’appuntamento con la stella. Da quel momento sta a me analizzare la prima immagine generata dopo l’esplosione e decidere se allertare o meno la comunità degli astrofisici, puntando così tutti i telescopi della Terra in quella direzione, anche Hubble se necessario.

Cosa si prova a osservare un evento del genere in tempo reale?

E. T. Ogni volta è uno spettacolo unico, elettrizzante, al cui fascino visivo si aggiunge il mistero di un evento che è lì, davanti ai tuoi occhi, ma che in realtà è accaduto miliardi di anni fa.

Quali nuove tecnologie saranno utili per le vostre finalità scientifiche?

G. R. Il lancio del James Webb Space Telescope (JWST), previsto nel 2021. Un nuovo telescopio spaziale in grado di vedere più a fondo nell’universo e che, senza ombra di dubbio, fornirà indizi fondamentali sulle origini dell’universo e sulle atmosfere degli oltre 4000 sistemi planetari esistenti al di là del nostro sistema solare.

Raccontateci un vostro "momento Eureka" alla NASA.

E. T. Mi ritengo molto fortunata perché poco più di due anni fa ho vissuto di persona un evento storico che si può dire abbia cambiato il modo in cui oggi guardiamo le stelle. Era il Ferragosto del 2017 ed ero appena atterrata a Palermo per andare a trovare la mia famiglia, quando ricevo un SMS dalla NASA. Era una segnalazione automatica del nostro sistema di osservazione satellitare che indicava insistentemente un’enorme esplosione avvenuta sopra le nostre teste. Ho quasi rischiato di non accorgermi del messaggio,

presa com’ero dall’accoglienza siciliana e dall’organizzazione di una vacanza a Favignana. Immediatamente abbiamo puntato i sensori in quella regione del cielo e abbiamo iniziato ad acquisire dati. Si trattava di un’esplosione senza precedenti, di cui ancora oggi discutiamo, e che è conosciuta con il codice “170817” per ricordarne la data. L’emanazione congiunta di luce e onde gravitazionali che ha accompagnato quell’esplosione stellare ha confermato con misure precise quelle che, fino ad allora, erano solo teorie. I giorni successivi, ho sequestrato il televisore di famiglia per osservare meglio le immagini che arrivavano sul mio PC, in Sicilia, dai telescopi di mezzo mondo. Con buona pace di mia madre e mia figlia che per giorni non hanno potuto guardare il Commissario Montalbano e Peppa Pig. Ovviamente non siamo più andati a Favignana.

Che conseguenze ha avuto questo evento sul tuo lavoro?

E. T. Solo nel giorno dell’ufficializzazione della notizia, sono stati pubblicati un centinaio di articoli scientifici. È stato emozionante intervenire alla conferenza stampa della NASA e raccontare questa scoperta. Vorrei sottolineare che quel giorno, sul podio, eravamo ben quattro donne italiane su quindici scienziati. Un contributo della ricerca italiana che proveniva dall’imprescindibile Sistema VIRGO di Pisa (Cascina), che ci ha consentito di trovare la posizione del segnale. Un vero e proprio ago nel pagliaio.

G. R. Una mia grande soddisfazione è stata convincere gli esigentissimi panel di selezione della NASA che i miei progetti di ricerca meritassero attenzione e fondi. La corsa a “prenotare” l’utilizzo della flotta di telescopi e satelliti è infatti molto competitiva. Vincere come principal investigator ha premiato anni di lavoro.

Come avviene la selezione di questi progetti?

G. R. Sono sessioni molto selettive. Di recente, sono stata invitata a far parte di questi panel. È una prassi che sottolinea la volontà della NASA di dare responsabilità ai giovani, attitudine purtroppo meno pronunciata in Italia. La selezione poi è double anonymous, cioè il panel di valutazione non ha accesso all’identità del candidato e viceversa, così da evitare qualsiasi forma di bias, inclusi quelli di età, genere o nazionalità.

Con quale progetto hai vinto?

G. R. I miei progetti – attualmente in corso – combinano le osservazioni di stelle fatte contemporaneamente da telescopi posizionati nello spazio (come Hubble) e a terra. Questi ultimi utilizzano la tecnica dell’interferometria per amplificare la capacità di perlustrazione interna della stella e dei suoi paraggi. I dati raccolti devono poi essere analizzati e sintetizzati in informazioni intellegibili grazie a software dedicati e a librerie di spettri elettromagnetici che la comunità scientifica genera giorno dopo giorno.

(In copertina) Butterfly Emerges from Stellar Demise in Planetary Nebula NGC 6302, Hubble Space Telescope, NASA, ESA and the Hubble SM4 ERO Team, 9 settembre 2009. (Sopra) The Twin Jet Nebula, ESA/Hubble e NASA: Judy Schmidt, 26 agosto 2015

Come convivete con l’assenza di risultati immediati in un mondo che si basa sull’appagamento istantaneo e sulla ricerca di visibilità sociale?

S. F. La scienza richiede pazienza, passione e dedizione. Fare astronomia osservativa è come condurre esperimenti in laboratorio, con la differenza che il mio laboratorio è lo spazio e non ci posso accedere sempre.

Com’è l’ambiente lavorativo alla NASA?

S. F. Per quanto sia una delle agenzie governative americane di maggior rilievo, la NASA non è un posto impersonale, ma conserva una dimensione umana. Mi piacciono i coffee-talk del lunedì e del venerdì mattina a cui partecipa tutto il Planetary Systems Lab. In questo modo si scambiano due chiacchiere, stimolando le collaborazioni in modo meno formale.

Esiste un equilibrio tra generi nel vostro settore?

E. T. Benché nel nostro campo ci sia una presenza abbastanza equilibrata tra uomini e donne, a queste

ultime si richiede sempre il massimo dei risultati, cui si deve aggiungere un atteggiamento di critica spesso più marcato rispetto agli uomini. Suppongo sia il frutto di un retaggio culturale. Questo approccio esigente induce noi donne a essere più precise e concrete, così da ridurre il rischio di errore ed esporci meno alla critica. Ma questo ci porta anche ad avere atteggiamenti più prudenti e forse meno creativi (ma anche meno approssimativi) rispetto ai colleghi maschi.

C’è spazio per la creatività nello studio dell’universo?

E. T. Eccome! Se un ricercatore non esce un po’ dall’alveo del conosciuto difficilmente farà scoperte

rilevanti. Gli scienziati più bravi sono quelli più creativi, che vanno oltre l’applicazione delle formule note e verificano ipotesi bislacche. Gli astrofisici sono quasi degli artisti della natura, dell’universo, con solide basi teoriche ma anche con una sana dose di creatività. Quest’ultima però richiede carburante. Le strutture con minori risorse finanziarie, infatti, finiscono per cancellare le iniziative ritenute più innovative. La mancanza di fondi e la burocrazia sono probabilmente le ragioni per cui il sistema italiano è meno attraente di quello statunitense per noi ricercatori. Se dovessi tornare in Italia, probabilmente mi riconoscerebbero gli undici anni passati alla NASA, ma dovrei accettare uno stipendio che mi farebbe paradossalmente ripartire da zero.

Torneresti a fare ricerca in Italia?

G. R. Nonostante i miei otto anni di esperienza internazionale, tornare nel nostro paese sarebbe difficile se non impossibile, soprattutto dopo aver perso quei legami con il mondo accademico e della ricerca su cui purtroppo ancora si basa il processo di selezione e promozione in Italia.

Quali caratteristiche riconoscono a voi ricercatrici italiane alla NASA?

G. R. Una preparazione molto approfondita ma anche più polivalente che conferisce maggiore flessibilità mentale e creatività.

Una cosa americana che gli italiani dovrebbero imitare?

G. R. Meritocrazia, capacità organizzativa e rispetto delle regole.

Chi sono le vostre eroine in campo scientifico?

G. R. La mia è Ipazia d’Alessandria, filosofa e astronoma greca vissuta nel IV secolo d. C., paladina della libertà di pensiero.

S. F. Margaret Hamilton, Samantha Cristoforetti, Nancy Roman, Margherita Hack, Mae Carol Jemison, Rita Levi-Montalcini. Posso sceglierle tutte?

La rivista “Civiltà delle Macchine” da sempre esplora e promuove le contaminazioni tra la sfera culturale tecnico-scientifica e quella umanistico-artistica. Come valutate questo approccio?

G. R. Credo fermamente nell’importanza del raccontare la bellezza dell’astronomia al pubblico e da anni mi dedico a eventi divulgativi, anche in scuole italiane. Suggerisco a chi è interessato, di contattare il NASA’s Office for Outreach per organizzare un evento divulgativo con noi scienziati. Io scrissi alla NASA quando avevo 12 anni e la NASA mi rispose! Fu l’inizio della mia carriera.

S. F. La divulgazione scientifica può sposarsi con diverse forme artistiche, come le serate dell’Osservatorio Astrofisico di Arcetri, in cui il teatro, la musica, la danza e il cinema si fondono con l’astronomia.

C’è spazio nel cosmo per la filosofia, la meditazione e l’irrazionale?

G. R. La nostra ricerca in fondo risponde all’urgenza di domande quali: «chi siamo? Da dove veniamo?». E lassù è pieno di indizi.