26.05.2021 Barbara Frandino

La fortuna delle giovani operaie del Convitto Leumann

Il reclutatore selezionava ragazze per la fabbrica Leumann con abilità.

L’incaricato al reclutamento aveva fiuto e parlava con le persone giuste. Le ragazze servivano sveglie ma docili, altrimenti avrebbero fatto impazzire le suore del Convitto o, peggio ancora, avrebbero messo strane idee in testa alle altre. Il reclutatore possedeva una mappa coi paesi da ispezionare. In ognuno, scendeva dalla diligenza e andava dritto in canonica: se in paese ci fosse stata una candidata ideale, una ragazza meritevole di età compresa tra i tredici e i ventuno anni, il parroco lo avrebbe saputo.

Poco dopo, l’inviato della fabbrica era nella casa di qualche contadino, con troppi figli e poco da mangiare, pronto a giurare che la sua figliola era una buona lavoratrice, sottomessa e devota. La sera, la famiglia del contadino avrebbe ringraziato Dio per aver ascoltato le sue preghiere, mangiato un pasto più abbondante del solito, un brodo di gallina e un dolce speciale, e festeggiato la giovane figlia che era diventata un’operaia tessile della Leumann.

Hai la fortuna in mano, dicevano alle nuove assunte. Le ragazze lasciavano i loro paesi e si trasferivano nella città in miniatura che i Leumann avevano costruito alle porte di Torino e che sembrava uscita da un libro di fiabe o da un romanzo di avventure: un cancello tra due torri dal tetto aguzzo, le villette a due piani coi giardini, le decorazioni di ferro battuto, le fioriere di legno. Un luogo dove, oltre al lavoro, avevano un letto pulito nelle camerate del Convitto femminile, pasti caldi, energia elettrica, acqua corrente, scuole, una previdenza, un ambulatorio medico, giardini per passeggiare. Il tuo nuovo Padrone è un santo, si diceva.

Il Padrone si chiamava Leumann ed era un uomo generoso, un visionario, un illuminato, dicevano. O, a seconda dei punti di vista, uno scaltro capitano di industria, che barattava il diritto al lavoro, all’assistenza e alla salute con la pace sociale. Un industriale moderno, che sapeva far di conto, poiché attraverso il controllo totale delle vite dei suoi operai, del loro tempo e delle loro coscienze, garantiva una maggiore produttività alla sua azienda.

È il 1874 quando i Leumann, una famiglia di imprenditori svizzeri, acquistano 60.000 metri quadri di terreno attraversati da due corsi d’acqua, a Collegno, poco distante da Torino, per costruirci un opificio e un villaggio operaio. Torino è un buon posto per investire. Con un appello agli imprenditori italiani e stranieri, il Comune ha promesso agevolazioni commerciali, terreni a prezzi bassi (3 lire al metro quadro al posto delle 20 richieste altrove) e «operai seri, intelligenti e laboriosi, disposti a lavorare a salari inferiori alla media o ad adattarsi a retribuzioni di sussistenza». È il modo in cui Torino cerca di rilanciare l’economia: vuole farsi perdonare di aver perso il ruolo di capitale d’Italia trasformando il territorio nel più importante polo industriale della nazione.

In poco tempo il cotonificio inizia a produrre ottimo cotone, lino e flanelle. I prodotti finiti vengono spediti in Francia o a Genova, da cui raggiungono via nave il resto del mondo. Nel 1878, la Leumann impiega già 670 persone. Un medico incaricato dalla Leumann fa uno screening su 417 cotoniere: provengono da 374 famiglie con oltre 2500 figli, un’altissima mortalità infantile e un considerevole tasso di denutrizione. La nuova vita, promette il medico, le farà diventare forti e longeve.

(In copertina) Villaggio Leumann, dettaglio di uno degli edifici, foto di Roberto Giachino, Collegno, Piemonte, 2018. (Sopra) Convitto delle giovani operaie, Villaggio Leumann, Collegno, 1910-20 ca. Archivio dell'Associazione Amici della Scuola Leumann

I Leumann appartenevano a quella borghesia dotata di propensione al risparmio e della capacità innata di reprimere gli istinti: qualità che legittimavano moralmente la ricchezza e i privilegi dei borghesi. Si diceva che di quei valori le classi inferiori fossero sprovviste. Per questo i poveri restavano poveri. Ma l’esasperazione per le condizioni in cui erano costretti a lavorare e vivere gli operai delle fabbriche tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento non poteva essere messa a tacere da un luogo comune. Dopo quattordici/sedici ore di fabbrica, la maggior parte degli operai – uomini donne e bambini – vivevano ammassati in soffitte o scantinati in condizioni igieniche e sanitarie spaventose. Molti potevano permettersi solo un letto di fortuna con la paglia, dentro la fabbrica. Le donne e i bambini guadagnavano la metà degli uomini. Gli incidenti sul lavoro erano all’ordine del giorno. Ormai si parlava apertamente di una grave questione sociale: gli operai scioperavano, gli scontri bloccavano le fabbriche. Gli imprenditori, in genere, affrontavano l’emergenza con la repressione. I Leumann avevano scelto il paternalismo e avevano iniziato la costruzione della loro città sociale.
Tra il 1875 e il 1907, nasce così il Villaggio Leumann progettato da Piero Fenoglio. Non un architetto qualunque, ma uno dei più importanti interpreti del liberty in Italia. Viene edificata la fabbrica al centro del terreno, che tutti possano vederla. Sorgono i villini e le case per gli impiegati, gli operai e le loro famiglie, con i servizi igienici e un orto e un giardino condiviso. Nascono l’asilo, la scuola elementare, una palestra, i bagni pubblici, una chiesa intitolata a Santa Elisabetta, una cooperativa alimentare dove il cibo viene venduto a prezzi calmierati, una piccola stazione ferroviaria, un albergo e il Convitto delle giovani operaie, un ufficio postale e un circolo sportivo per gli impiegati. Leumann realizza la sua isola completamente autonoma. Grazie alle sue conoscenze altolocate, riesce anche a proteggere l’isola dai pericoli esterni: uno di questi è un’affollata taverna non distante dai confini del Villaggio, dove gli operai bevono e fanno politica. Diventano socialisti, sfuggono al controllo. Leumann ne ottiene la chiusura.
Le ragazze reclutate nelle campagne, prima in Piemonte e poi nel resto d’Italia, si trasferiscono nel Convitto gestito dalle suore, che è stato ultimato nel 1906. È fatto a ferro di cavallo, le camerate danno su corridoi costantemente sorvegliati dalle suore, perché alle famiglie è stato garantito il controllo rigido sulla loro moralità e perché il Padrone non vuole donne indipendenti tra le sue operaie.

Scuola della buona massaia, 1910-20 ca. Archivio dell'Associazione Amici della Scuola Leumann

Nel Convitto vivono 250 ragazze, nessuna ha più di vent’anni, molte ne hanno appena tredici, un paio di loro sono dodicenni. Per il soggiorno, pagano 50 centesimi al giorno. C’è un regolamento, redatto da Napoleone Leumann, il figlio del fondatore: il suono di una campana stabilisce quando devono andare a dormire, alzarsi, presentarsi in refettorio per i pasti. Devono lavarsi almeno una volta ogni quindici giorni in estate e almeno una volta al mese in inverno. La doccia costa 10 centesimi, il bagno 20. Il letto 50 al giorno, e così pure ogni pasto. Un’operaia torinese, a quell’epoca, non guadagna mai più di 75 lire al mese.
Nel regolamento c’è una lista di attività illecite che le ragazze devono conoscere a memoria, tra cui i balli o cantare per le strade o fare rumore in camerata dopo le 21:30. Hanno dieci minuti al giorno per fare spesa e non possono incontrare colleghi di sesso maschile. Chi disobbedisce al regolamento, viene multato. Chi commette errori sul lavoro, viene multato e segnalato: una bolla di ammonizione resta affissa per una settimana in bacheca, ben visibile a tutti. Nel tempo libero, seguono i corsi di contabilità, economia domestica, imparano a conoscere le alterazioni degli alimenti e a cucire. Diventano donne assennate e ubbidienti, e buone massaie. Poi, il sabato, se hanno le famiglie vicine, o tre volte l’anno, se arrivano da lontano, le ragazze tornano da genitori e fratelli. Il tuo Padrone è un santo, si sentono ripetere. E loro annuiscono fiere, perché il Villaggio non è solo un’opportunità di lavoro, è un’appartenenza, un segno di elezione, una precisa identità e, per molti punti di vista, una vita migliore. Bisogna avere riconoscenza, si sentono dire: che fuori da lì, la scuola finisce alla terza elementare, e se ti ammali, puoi solo pregare, e se il raccolto va male, non mangi.
Che il privilegio abbia un’altra faccia della medaglia e che, quella faccia, assomigli alla prigionia, non è cosa di cui scandalizzarsi: «Di qualcosa bisogna pur essere prigionieri: o del Padrone o della fame».
Il Villaggio Leumann oggi è una città museo. Il cotonificio è stato chiuso dopo la crisi degli anni Settanta, ma il quartiere è rimasto pressoché intatto. Nelle case abitano ancora molti dipendenti dell’ultima generazione a cui il cotonificio ha dato lavoro. Ci sono visite guidate, case museo, mostre, e una scuola ancora attiva. La scuola era un chiodo fisso di Napoleone Leumann. «Se vuoi un buon operaio, istruiscilo», diceva.
Se vuoi un operaio sottomesso, dicevano i detrattori del suo stile, tienilo lontano dai libri. In risposta, l’imprenditore svizzero ha fatto costruire anche una scuola serale per gli adulti e una biblioteca, il coro e una scuola di musica. Alla fine, Leumann ha avuto ragione: negli anni caldi delle proteste operaie, la Leumann non è stata risparmiata, ma gli scontri sono stati più contenuti che altrove. E poi, è rimasta l’appartenenza. 

C’è un’associazione che ne tramanda il senso, all’interno del Villaggio: si chiama Amici della Scuola Leumann. I volontari che ne fanno parte dicono che lì dentro ci sono le loro radici.