24.05.2023 Giuseppe Berutti Bergotto

Perché serve un’autorità nazionale sul traffico sottomarino

L’ambiente subacqueo è una nuova frontiera. 

Pur essendo ancora largamente sconosciuto, esso custodisce una quantità considerevole di risorse. La moderna esplorazione dei fondali marini nasce meno di duecento anni fa e ciò fa sì che, a oggi, risultino per lo più inesplorati. Solo il 20% di essi è stato mappato con tecnologie avanzate, prevalentemente per scopi connessi con la sicurezza della navigazione, e quindi, nell’ottica della loro tutela, i fondali rimangono avvolti da quell’oscurità che nell’immaginario ha sempre celato figure mitologiche.

L’esplorazione del mondo subacqueo è anche nuova frontiera della cultura visuale. Le immagini digitali sono in grado di catturare creature ed eruzioni vulcaniche sottomarine, fenomeni diversamente non disponibili. Come oggetto di visione di massa, gli abissi oceanici rimangono fortemente separati da ogni altro contesto sociale e culturale, frammentato da una osservazione documentaristica descrittiva piuttosto che da una visione analitica, aspetto che disincentiva ogni tipo di consapevolezza critica.

L’immersione è una esperienza innanzitutto fisica. Dopo poche decine di metri l’ambiente circostante cambia radicalmente, così come le condizioni di vita. All’aumento della pressione, cambia anche la capacità di respirare; i suoni sono ovattati ma possono essere ascoltati a distanze molto maggiori, i colori scompaiono fino a rimanere nei toni del rosso e del giallo. Segue solo il buio. Superate poche centinaia di metri di profondità l’uomo non riesce più a operare e per poter accedere e trarre beneficio dalle ricchezze che giacciono sui fondali e nelle masse di acqua occorrono tecnologie che, fino a pochi decenni or sono, non erano immaginabili. Dalle prime esplorazioni degli abissi, la ricerca marina e subacquea ha compiuto passi enormi. Le nuove tecniche messe a punto hanno consentito, e sempre più saranno in grado di farlo, di esplorare dettagliatamente i fondali e di consentirne l’utilizzo per fini antropici. Questo sviluppo apre straordinarie opportunità sia in termini di accesso alle enormi risorse minerarie, energetiche e proteiche custodite nei fondali, sia in termini di progresso scientifico e di ramificazione di sempre più efficienti infrastrutture subacquee, essenziali per la distribuzione dell’energia e per le telecomunicazioni. A tali opportunità si affiancano altrettante sfide a partire dall’impegno collettivo volto a salvaguardare l’uso libero, sicuro e sostenibile del mare e dei suoi fondali. Si aggiungono poi alcune conseguenze i cui effetti hanno rilievo sul piano delle relazioni internazionali, della sicurezza e dello sviluppo capacitivo. Ci soffermiamo su tre di queste conseguenze.


La prima riguarda direttamente il Mediterraneo ed è connessa al fenomeno della cosiddetta territorializzazione. I primi strumenti legali e di regolazione delle esplorazioni subacquee vennero definiti durante la terza sessione della Commissione UNCLOS, che elaborò la Convenzione delle Nazioni Unite sul diritto del mare, firmata a Montego Bay nel 1982 e che costituisce tuttora il quadro normativo di riferimento che disciplina le attività condotte in mare, definendo i diritti e le responsabilità degli Stati nell’utilizzo degli spazi marittimi. Tra questi, l’istituzione della Zona economica esclusiva (ZEE), un colpo decisivo alla separazione tra terra e mare, che prevede il controllo sulle attività economiche da parte dello Stato sul sottofondo marino e la colonna d’acqua fino a 200 miglia nautiche dalla linea di base: un ampliamento senza precedenti della giurisdizione dello Stato, che fa sì che terra e mare non possano più dirsi ordini distinti e relativamente contrapposti. Malgrado ciò, da questo specifico punto di vista, il nostro mare non è stato storicamente interessato dagli effetti diretti della territorializzazione. Trattandosi di un bacino semichiuso, ciò era relazionabile tanto al basso interesse per i fondali stessi – all’epoca irraggiungibili – quanto alla difficoltà intrinseca nel processo della ripartizione delle zone sovrapposte e alla conseguente definizione delle delimitazioni che avviene per via diplomatica tra Stati frontisti, le cui coste nel Mediterraneo non superano mai le 400 miglia nautiche di distanza.

Gli Stati si erano invece mostrati prevalentemente interessati alle opportunità offerte dalla pesca oppure alla tutela dell’ambiente marino, definendo, nei termini consentiti, delle zone di giurisdizione limitata, finalizzate alle funzioni di salvaguardia di tali ambiti. La moderna capacità sviluppata oggi di poter accedere a risorse minerarie ingenti ha cambiato la prospettiva. La scoperta dei giacimenti di gas nel Mediterraneo orientale ha avviato un effetto domino, generando un quadro complessivo ancora tutto da definire, con ampie e irrisolte aree di potenziali attriti e competizioni tra paesi, anche tradizionalmente amici. 
Il secondo aspetto riguarda la possibilità che le tecnologie per l’accesso al mondo subacqueo, oggi sempre più facilmente disponibili, possano essere impiegate da attori statuali o non per fini malevoli, con il rischio che possano essere così messe in pericolo le infrastrutture di vitale interesse nazionale ed europeo, colpendo il nostro sistema di approvvigionamento energetico, ovvero la dimensione telematica che caratterizza il nostro sistema sociale ed economico. Non solo. L’utilizzo improprio di tecnologie per lo sfruttamento dei fondali potrebbe danneggiare l’ecosistema ovvero impoverire in maniera predatoria le risorse ittiche e la biodiversità marina oltre che provocare fenomeni geologicamente degenerativi dei fondali e riflettersi sulle coste prospicienti gli spazi acquei coinvolti. Tutto questo richiede un’azione di salvaguardia e di vigilanza a tutela tanto degli interessi nazionali quanto del patrimonio subacqueo nel suo complesso, necessità oggetto di attenzione del recentemente approvato Accordo internazionale sulla conservazione e uso sostenibile della biodiversità marina (BBNJ Agreement), prodotto in sede ONU quale terzo accordo applicativo della Convenzione di Montego Bay.


La terza conseguenza riguarda il rinnovato e diffuso sviluppo del potere marittimo da parte delle nazioni che hanno le caratteristiche sociali, culturali, geografiche, industriali ed economiche per poterlo fare. Dal Mediterraneo al mar Baltico; dall’Atlantico all’Indopacifico; dal Golfo Persico al Golfo di Guinea sempre più Stati guardano anche ai fondali marini come una frontiera da scoprire e da impiegare in maniera esclusiva e, conseguentemente, sviluppano politiche e strumenti tecnologici utili a tali finalità. Il rischio è che le moderne capacità tecnologiche, nel facilitare l’accesso ai fondali, possano alimentare una corsa per il loro sfruttamento irregolare o comunque non regolamentato o condurre attività illecite e azioni intenzionalmente ostili ai danni di Stati o privati. Esistono pertanto, strettamente legate al mondo subacqueo, nuove opportunità cui si affiancano sfide che necessitano di essere gestite e regolate per far sì che ne scaturiscano benefici e possibilità di sviluppo e non competizioni. Questi fattori vanno considerati tra loro interconnessi e devono essere inquadrati in uno scenario geopolitico dove il mare assume una rilevanza sempre più determinante, in particolare nel Mediterraneo, ovvero nella sua accezione allargata. Il conflitto in Ucraina ha riportato l’attenzione sulle minacce convenzionali – in particolare quella subacquea, divenuta immanente – e sul loro impatto sul mare, ma ha anche rafforzato la consapevolezza dell’esigenza di salvaguardare e proteggere le infrastrutture critiche subacquee. Gli eventi del Nord Stream hanno dato evidenza eclatante dei rischi a cui sono esposte le infrastrutture subacquee critiche e di quanto sia complesso proteggerle. Al pari delle linee di comunicazione marittime esse sono vitali per il paese e per la comunità internazionale. Occorre sviluppare nuove capacità che consentano di essere sempre più efficaci e persistenti nelle attività di vigilanza e protezione, sopra e sotto la superficie del mare. Solo attraverso una completa underwater situational awareness, infatti, è possibile garantire il pieno controllo delle attività che si svolgono sotto la superficie, rilevando eventi anomali dovuti a errori di posizionamento, avarie o anche ad azioni volontarie a danno di infrastrutture o risorse subacquee.


L’ambiente subacqueo rappresenta quindi un vero e proprio nuovo dominio fisico e operativo perché contraddistinto da caratteristiche fisiche, procedure e complessità tecnologiche del tutto peculiari.

Fino a oggi le attività subacquee avevano quali principali finalità la difesa dalla minaccia di sommergibili, da quella di mine o di altri ordigni subacquei, la ricognizione occulta nonché la mappatura e la caratterizzazione dei fondali dal punto di vista idro-oceanografico e cartografico e, in modo tutto sommato marginale, l’utilizzo delle risorse sottomarine. A queste, ora si aggiunge la necessità di dover sorvegliare fondali sempre più profondi, dove giacciono vitali infrastrutture e dove possono essere messe in opera attività marittime di interesse nazionale, che vanno tutelate e vigilate. Occorre essere persistenti sui fondali, con mezzi autonomi in grado di lavorare a lungo e secondo logiche di teaming (cooperazione) e swarming (operazioni in sciami con intelligenza artificiale distribuita). È necessario che tali strumenti possano essere controllati da remoto e che possano comunicare tra loro con la stazione di controllo in un ambiente impermeabile alle onde elettromagnetiche. Servono sistemi che possano mappare in maniera sempre più precisa e dettagliata i fondali marini in modo da sviluppare una conoscenza anche strumentale della loro conformazione. È per indirizzare questo percorso di innovazione tecnologica che è stato istituito a La Spezia il Polo Nazionale della dimensione Subacquea. Un hub volto a promuovere e sviluppare la collaborazione tra esperti del settore subacqueo della difesa, dell’industria, della ricerca, delle piccole e medie imprese e del mondo accademico, favorendo così innovazione e sviluppo.


La tecnologia è essenziale ed è il motore dell’accesso alla dimensione subacquea, ma non è sufficiente a garantire un ordinato, sicuro e sostenibile accesso agli spazi subacquei. Serve anche un adeguamento delle normative nazionali e internazionali, volto a garantire capacità di monitoraggio e funzioni di coordinamento. A tal fine l’istituzione di una Autorità nazionale per il controllo del traffico subacqueo, basata dal punto di vista operativo su una piattaforma tecnologica già esistente presso la Centrale operativa multidominio Marina di Santa Rosa (Roma), permetterebbe di ottenere la piena consapevolezza delle attività subacquee svolte negli spazi marittimi di interesse nazionale e di raccordarsi con le attività di controllo condotte dagli altri Stati, fungendo anche da avanguardia per l’istituzione di una più ampia e strutturata organizzazione di controllo e coordinamento. Una siffatta Autorità, in quanto referente unico, semplificherebbe i processi autorizzativi per le operazioni subacquee. Al contempo, avendo completa evidenza di tutte le attività autorizzate e risolvendo preventivamente eventuali sovrapposizioni o interferenze, l’Autorità per il traffico subacqueo migliorerebbe sensibilmente la sicurezza delle attività e delle infrastrutture di interesse strategico nazionale che insistono nel dominio subacqueo.


Sulla spinta della tecnologia si sta svelando una dimensione, quella subacquea, per molti aspetti del tutto nuova all’umanità. Ricca di opportunità, risorse ma anche di sfide. L’Italia, per posizione geografica, capacità e competenze, può prendere l’iniziativa agendo in anticipo e svolgere un ruolo di primo piano nella nuova corsa agli abissi marini.