24.05.2023 Vincenzo Pisani

Un trattato per le regole

Biodiversità, risorse genetiche, metalli rari, cambiamenti climatici, decarbonizzazione.

Qualunque sia l’ordine in cui li affrontiamo, questi temi sono tutti intrecciati e direttamente o indirettamente connessi agli oceani. A marzo 2023 è stato sottoscritto un Trattato sull’alto mare per la protezione e la gestione sostenibile di circa due terzi degli oceani, un accordo raggiunto all’ONU dalla Conferenza intergovernativa sulla biodiversità marina delle aree al di fuori della giurisdizione nazionale: la cosiddetta BBNJ (Biodiversity Beyond National Jurisdiction). Ne parliamo con David Leary, professore di Diritto presso la Facoltà di Giurisprudenza della University of Technology di Sydney, uno dei giuristi internazionali più accreditati nel settore delle regole sul mare profondo.

Professor Leary, qual è la sua opinione sul Trattato BBNJ? 
Si tratta di un accordo importante. All’inizio dello scorso marzo è stata raggiunta un’intesa sul testo e la conferenza diplomatica è attualmente al lavoro per approvarlo definitivamente. Dovremo attendere che venga formalmente firmato dagli Stati e poi ratificato. Ritengo rappresenti uno sviluppo positivo nel diritto internazionale. La questione della regolamentazione delle aree al di fuori della giurisdizione nazionale – in particolare della conservazione e dell’uso sostenibile della biodiversità – costituisce una delle grandi lacune del diritto del mare e del diritto relativo all’ambiente marino internazionale, che pur esiste da molti anni. In effetti, i negoziati su questo Trattato hanno una storia ventennale. È passato molto tempo da quando, all’inizio degli anni Novanta, venivano identificati i problemi per la prima volta ed è passato altro tempo ancora per la convocazione della conferenza diplomatica formale. Oggi il Trattato copre una serie di questioni diverse riguardanti l’alto mare.


Quali sono, secondo lei, i risultati principali raggiunti da questo accordo? 
Credo che gli aspetti più importanti siano due: il primo è l’estensione dei requisiti di valutazione dell’impatto ambientale per le attività in aree al di fuori della giurisdizione nazionale. Il secondo, piuttosto rivoluzionario, è la creazione di diversi nuovi meccanismi e strumenti di gestione di vaste aree (Area Based Management Tools), che consistono principalmente in zone marine protette in alto mare. Fino alla sottoscrizione di questo Trattato, meccanismi e strumenti di tal sorta di fatto non esistevano. Le aree marine protette sono state uno strumento efficace di governance ambientale che ha funzionato negli ambiti di giurisdizione nazionale. Per questo motivo, nel periodo che ha preceduto il Trattato, si è discusso di come estendere tale meccanismo anche all’alto mare.
Inoltre, il Trattato si occupa di fornire un meccanismo che regoli l’accesso e la condivisione dei benefici delle risorse genetiche marine nelle aree al di fuori della giurisdizione nazionale. 
Personalmente, sono sempre stato un po’ scettico riguardo la necessità di questa parte del Trattato. In primo luogo, perché nelle mie ricerche non sono riuscito a individuare attività che coinvolgessero la bioprospezione o la commercializzazione delle biotecnologie in alto mare. Ritengo che il dibattito su questa materia sia sconfinato in temi che nella pratica riguardano le giurisdizioni nazionali. Di fatto la bioprospezione avviene in aree che rientrano nelle acque nazionali. La Norvegia, per esempio, ha un proprio regime normativo che regola le attività dell’industria e degli istituti di ricerca scientifica nelle sue acque territoriali. Detto ciò, non sono stato in grado di identificare i grandi interessi commerciali che spingono molti a sostenere la necessità di una maggiore regolamentazione. D’altro canto, fin dalle prime fasi del processo diplomatico di negoziazione era chiaro che non sarebbe stato possibile raggiungere un accordo se non si fossero affrontate anche tali questioni, vale a dire senza una valutazione dell’impatto ambientale sulle aree marine protette e sulle risorse genetiche marine. La risoluzione dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite, che ha autorizzato il processo di negoziazione, ha di fatto legato questi tre aspetti e ha specificato la necessità di raggiungere un’intesa sui tre temi. Quindi, il tema fa parte di un pacchetto di accordi necessari per ottenere il Trattato.


I rapporti scientifici mettono spesso in guardia sulla fragile situazione ambientale dell’Artico e dell’Antartico. Può dirci qualcosa in più sugli obiettivi e le sfide in questo campo? 
L’Antartide è regolato dal Trattato Antartico e dal Protocollo di Madrid, che si occupa della regolamentazione ambientale. Una delle grandi conquiste di questo e di altri accordi che chiamiamo Sistema dei Trattati Antartici è il grande rilievo dato alla ricerca scientifica, che oggi rappresenta l’attività legittima principale nell’area. Quanto sappiamo dei cambiamenti climatici deriva in gran parte proprio dalle attività di ricerca che sono state condotte in questa zona. Le nostre conoscenze sulla crescita del buco nell’ozono sono frutto delle scoperte realizzate a seguito delle ricerche effettuate nell’area. Pensiamo a rivoluzioni scientifiche come la teoria della tettonica a placche: l’intuizione è stata sviluppata da ricerche geologiche di base condotte in Antartide. Inoltre, la ricerca in questa zona è stata determinante per definire le cosiddette best practices ambientali.
L’Antartide rappresenta anche un’area di interesse geopolitico. 
Esattamente. Una delle migliori conseguenze del Trattato Antartico è la capacità di aver disinnescato in modo efficace molti dei potenziali conflitti territoriali che sarebbero potuti insorgere in questa area. Vi sono diversi Stati, tra cui l’Australia, che reclamano parti dell’Antartide come proprio territorio sovrano. Il Trattato ha congelato anche queste rivendicazioni territoriali. Finché lo impiegheremo per riunire la comunità internazionale, un vantaggio o uno svantaggio di una qualsiasi di tali rivendicazioni potrà essere addotta come prova a favore o contro, facendo sì che gli Stati si sentano a proprio agio nel collaborare. Al momento stiamo assistendo ad alcune tensioni a seguito della guerra russo-ucraina. Ciò detto, nonostante il conflitto in corso, il sistema continua a funzionare. Un altro aspetto importante del Trattato è l’introduzione del divieto di estrazione di minerali. Ora disponiamo di un regime normativo ambientale approfondito e completo e di una valutazione dell’impatto ambientale. Abbiamo quindi un ottimo sistema di governance che consente agli Stati di gestire e operare in Antartide lavorando nell’interesse comune.


Il sistema del Trattato Antartico include regolamenti relativi alle attività di pesca?
Sì. Lo spirito di cooperazione del sistema del Trattato Antartico si è esteso anche alla regolamentazione della pesca. La Convenzione per la conservazione delle risorse marine viventi dell’Antartide è stata istituita nel 1982 e, in una certa misura, è stata piuttosto innovativa nel suo approccio alla gestione della pesca nell’Oceano Meridionale e nelle acque intorno all’Antartide: tracciamento satellitare delle navi, documentazione della pesca ecc. In altre parole, l’Antartide è stato un ottimo modello e ha funzionato bene.


Che cosa succede nell’Artico? 
Nell’Artico non esiste attualmente un simile regime di trattati. In realtà, gran parte di quest’area è soggetta alla sovranità degli Stati artici: Canada, Stati Uniti, Russia ecc. Ognuno di questi ha un proprio territorio definito. Poi vi sono piccole parti che non sono soggette alla giurisdizione nazionale. Al di fuori delle ovvie questioni militari strategiche venute a galla dopo la guerra fredda, non sono emerse altre questioni di rilievo. Esiste inoltre un meccanismo di cooperazione più informale, attuato principalmente attraverso il Consiglio Artico, che rappresenta un caso interessante. Gli Stati che ne fanno parte si riuniscono per discutere e concordare questioni specifiche, anche di carattere ambientale. È importante il riconoscimento attribuito alle comunità indigene della regione, alcune delle quali sono rappresentate nel Consiglio. Rispetto all’Antartide, tuttavia, quest’area non è regolata da un trattato formale.


Qual è la sfida principale in quest’area? 
Sicuramente i cambiamenti climatici e lo scioglimento dei ghiacci. Si stanno aprendo molte rotte di navigazione e si pone il problema delle nuove imbarcazioni che vanno a pescare in quelle acque. Un’altra potenziale criticità è l’eventuale affondamento di navi in caso di incidenti nella regione. La questione è complessa per due motivi: in primo luogo perché si tratta di un’area oceanica vasta e di un ambiente piuttosto ostile in cui operare. In caso di incidenti, sarebbe difficile ripulire l’area. In secondo luogo, data la scarsità di persone che vivono nella maggior parte dell’Artico, le operazioni di ricerca e salvataggio risulterebbero assai impegnative. Il diritto internazionale ha parzialmente risposto al problema attraverso l’International Maritime Organization, sviluppando il cosiddetto Codice Polare che stabilisce i requisiti per i mezzi che navigano nell’Artico e nell’Oceano Meridionale intorno all’Antartico.


Lei è australiano. Dal suo punto di vista, qual è il ruolo della Cina in termini di dimensione marittima internazionale e potenziale sfruttamento delle risorse o di questioni ambientali? 
Guardando al Trattato BBNJ, come tutti gli Stati la Cina ha adottato posizioni su varie questioni in linea con ciò che considera come proprio interesse nazionale. Pechino ha sempre fatto parte dei paesi non allineati del G77 e sono sicuro che nel corso dei negoziati le parti hanno lavorato a stretto contatto. In effetti, molte delle posizioni adottate dal governo cinese sono coerenti con quelle di alcuni altri Stati. In passato, tuttavia, il contesto era leggermente diverso. Per esempio, nel mar Cinese Meridionale le azioni della Cina sono state controverse. Un tribunale arbitrale internazionale ha effettivamente stabilito che le azioni di Pechino per estendere le sue rivendicazioni sullo spazio oceanico in quest’area erano contrarie al diritto internazionale. Altri paesi della regione – non solo le Filippine, ma anche il Vietnam, l’Indonesia e altri – sono preoccupati per l’atteggiamento assertivo della Cina. D’altra parte, nel contesto antartico, si è discusso degli interessi cinesi nella regione. Ma, ancora una volta, ciò che il paese sta facendo in Antartide è ampiamente coerente con le attività consentite dal Trattato Antartico. Gli Stati possono condurre ricerche scientifiche. Ma la domanda è a cosa servano queste ricerche. Sono interessati alle risorse minerarie della regione? Alcuni sostengono che sia così. Per quanto ne sappiamo, l’approccio della Cina non sembra differire da quello di qualsiasi altro Stato.


Quali suggerimenti darebbe ai decisori politici internazionali in termini di azioni più urgenti necessarie per sostenere la conservazione della biodiversità oceanica e la ricerca scientifica in questo campo? 
La prima cosa da fare è attuare i numerosi trattati che già abbiamo. Sono state varate molte leggi, ci sono migliaia di trattati ma non tutti sono stati implementati. Il secondo aspetto riguarda specificamente la scienza: nel regolamentarla, dobbiamo stare attenti, perché gioca un ruolo cruciale. Non dovremmo mai dimenticare che offre una visione indispensabile per rispondere ad alcune delle sfide fondamentali che stiamo affrontando. Se vogliamo regolamentare le attività legate alla scienza, dobbiamo evitare di rendere la ricerca scientifica impraticabile o di difficile accesso. Il mio terzo suggerimento riguarda il cambiamento climatico, che è al primo posto tra i problemi degli oceani, insieme alla perdita di biodiversità. Per esempio, ora c’è una grande spaccatura all’interno dell’International Seabed Authority, l’organizzazione delle Nazioni Unite che regolamenta l’attività estrattiva nelle aree oceaniche al di fuori della giurisdizione nazionale. La International Seabed Authority sta affrontando un passaggio molto delicato, poiché sta finalizzando i regolamenti ambientali sull’estrazione in acque profonde. Vi sono interessi commerciali che premono per procedere con l’estrazione in tempi brevi. Temo non venga compreso del tutto il potenziale impatto ambientale che potrebbe derivarne. Uno dei problemi è che il cambiamento climatico è indirettamente collegato alla domanda di estrazione mineraria, poiché abbiamo bisogno di minerali, come alcuni metalli rari (per esempio, litio) e cobalto ecc. L’industria sostiene la necessità di sfruttare le profondità marine perché non abbiamo abbastanza risorse sulla terraferma.  L’energia rinnovabile, la tecnologia delle batterie e tutte le soluzioni tecnologiche necessarie per rispondere ai cambiamenti climatici e per decarbonizzare le nostre economie spingono verso l’estrazione in profondità. Ma dobbiamo comprendere appieno l’impatto ambientale di queste attività. 

Si tratta di un problema di diritto internazionale molto complesso, mentre la necessità di prendere decisioni e trovare soluzioni si fa sempre più urgente.