05.03.2020 Marta Dassù

Quando la geopolitica non basta più

Lo spazio cosmico è un luogo freddo e solitario, soprattutto per il pensiero geopolitico contemporaneo, che non si è evoluto di pari passo con la crescente importanza dei sistemi spaziali per la politica e l’economia internazionali. 

La stessa parola geopolitica, con il rimando alla radice greca γῆ, “terra”, sottolinea in qualche modo una mancanza della disciplina: relega lo studio dell’interazione tra Stati al solo contesto planetario. Nell’immaginario comune, le stelle sono considerate una semplice provincia dell’investigazione scientifica, luogo di esplorazione e scoperta; ci si ferma raramente a riflettere sul ruolo strategico dello spazio extra-atmosferico. Si tratta di una sottovalutazione: fin dal lancio dello Sputnik 1, la corsa allo spazio è stata dettata da ragioni di sicurezza. La competizione tra Stati Uniti e Unione Sovietica ha trasformato l’ultima frontiera, dalla metà del secolo scorso in poi, in un terreno di affermazione della propria supremazia militare.

Ancor più che durante la guerra fredda, oggi lo spazio ha assunto un’importanza strategica cruciale, dal momento che la società umana è sempre più dipendente dai segnali che si trasmettono attraverso la complessa rete di satelliti governativi e commerciali. Di qui fluiscono i dati, le immagini e le informazioni che sorreggono l’impalcatura economica del mondo e possono offrire importanti vantaggi nei campi più disparati, dalle comunicazioni all’intelligence, dal posizionamento alla navigazione di precisione, fino al comando e controllo delle operazioni militari e alla difesa antimissile. All’inizio del secolo scorso, l’ammiraglio statunitense Alfred Thayer Mahan teorizzava il concetto di “potere marittimo” come fulcro del potere nazionale, analizzando la competizione per il controllo delle linee di comunicazione navale, vere e proprie arterie dell’epoca. Rispetto ad allora, oggi sono le orbite newtoniane dello spazio esterno a diventare terreno della contesa fra gli Stati – sempre più numerosi – che cercano così di affermare i propri interessi, militari e commerciali al tempo stesso.

Alcuni elementi importanti rendono la nuova competizione per lo spazio esterno più conflittuale e caotica rispetto a quelle passate. Anzitutto, pesa l’influenza della disruption tecnologica: le applicazioni aerospaziali sono per loro natura dual-use e ogni sviluppo, anche di tipo non-militare, può costituire una potenziale minaccia di sicurezza. Nel 2007, per fare un esempio, gli Stati Uniti hanno guardato con apprensione allo sviluppo, da parte della Repubblica Popolare Cinese, di un sistema missilistico sperimentato abbattendo un proprio satellite meteorologico ormai fuori servizio. I detriti creati dall’esplosione mettevano in pericolo molti altri veicoli in orbita, rischiando di renderne alcune permanentemente inospitali e aprendo la competizione nel settore, minato, delle armi anti-satellite. Questo esempio chiama in causa anche le lacune del diritto internazionale. La struttura giuridica che regola l’uso dello spazio è, infatti, ancora fondamentalmente ancorata al Trattato sulle norme per l’esplorazione e l’utilizzazione, da parte degli Stati, dello spazio extra-atmosferico, compresi la Luna e gli altri corpi celesti del 1967, che, pur dichiarando lo spazio patrimonio comune dell’umanità, resta vago circa le norme specifiche per regolare i rapporti tra Stati sovrani. L’unico divieto esplicito riguarda l’utilizzo di testate nucleari al di fuori dell’atmosfera terrestre: in effetti, ciò lascia ampio margine per una competizione ostile tra Stati sovrani.

(In copertina) I lanci spaziali, Vertigo Design con Diana Giaisa, 2020, infografica. (Sopra) Il razzo Falcon 9 v1.1 di SpaceX lancia il satellite AsiaSat-6, Official SpaceX Photos, Cape Canaveral Air Force Station, 2014

In un contesto così magmatico, determinato dagli sviluppi tecnologici e dalla carenza di normative internazionali, non è un caso che una serie di Stati abbiano cominciato a valorizzare le proprie capacità belliche e le possibili strategie di proiezione spaziale. Quando il presidente Donald Trump, sul finire dello scorso anno, ha dichiarato lo spazio esterno un warfighting domain e istituito la Space Force, sesta branca indipendente delle forze armate degli Stati Uniti, la stampa internazionale non ha dato un peso particolare a questa scelta. Non così gli alleati e i rivali degli Stati Uniti che, a cominciare dalla Cina, hanno seguito Washington nel percorso di militarizzazione dello spazio. La NATO del resto ha da poco dichiarato lo spazio quinto dominio delle operazioni militari, dopo terra, mare, cielo e cyber. È chiaro che ciascuna potenza in caso di ostilità cercherà di ottenere la superiorità militare spaziale, negando accesso e impiego delle capacità spaziali all’avversario.

Nel post guerra fredda, gli Stati Uniti rimangono certamente la potenza egemone in ambito spaziale, controllando poco meno della metà del totale dei satelliti attualmente in orbita e stanziando circa 39 miliardi di dollari all’anno nel proprio programma spaziale, più di qualsia-si altro paese. La crescita del settore commerciale, insieme alle politiche di investimento di nuovi attori statali, hanno però aumentato la competizione. È la logica del cosiddetto New Space, caratterizzato dall’emergere di nuovi attori. Da un lato, rispetto agli anni della rivalità con Mosca, definiti da un sostanziale monopolio delle due superpotenze, sono oggi quasi settanta i paesi che hanno in corso programmi spaziali. D’altra parte, sono emerse nuove aziende private che hanno eroso il controllo pubblico dell’attività spaziale, ma l’hanno anche aiutata a svilupparsi, con start up dinamiche come la SpaceX di Elon Musk o la Blue Origin di Jeff Bezos. Il gioco non è a somma zero: la crescente decentralizzazione promette di aprire nuovi spazi di collaborazione e partnership pubblico-privato, soprattutto in un settore cruciale come quello dei lanciatori.

A contendere con gli Stati Uniti, pur con un grande ritardo accumulato, è la Repubblica Popolare Cinese, che ha avviato un importante programma di sviluppo delle proprie attività extra-atmosferiche. Nel 2019 Pechino ha effettuato più lanci orbitali degli Stati Uniti, incluso il lancio del razzo Long March 5, che ha toccato per la prima volta il lato oscuro della Luna. Entro quest’anno Pechino ha intenzione di finalizzare un sistema satellitare di navigazione alternativo al GPS americano, in modo da affrancarsi da una rischiosa dipendenza strategica. La Cina intende anche lanciare in orbita una propria stazione spaziale entro il 2025. Alla rivalità economica e alle tensioni geopolitiche che dominano le complicate relazioni tra Stati Uniti e Cina, si aggiunge quindi la competizione nello spazio. Da parte sua la Russia, che pure vive una fase di relativo tramonto tecnologico, mantiene vantaggi competitivi importanti nei veicoli e nei propulsori per lanciatori spaziali – la Soyuz di sovietica memoria è oggi l’unico vettore abilitato al trasporto umano nello spazio.

I lanciatori europei Ariane 5, Vega, Ariane 62 con due booster, Vega-C e Ariane 64 con quattro booster, rappresentazione grafica, 2019

In questo contesto, l’Europa rischia di perdere terreno, anche se l’Unione europea nel suo insieme è potenzialmente il secondo attore spaziale, grazie alla ricerca avanzata, a una tecnologia d’avanguardia nei programmi per l’utilizzo dei dati satellitari come Copernicus e Galileo, e importanti progetti nel campo dei lanciatori quali Ariane 6 e Vega C. Negli anni recenti, la Commissione europea ha moltiplicato il proprio impegno nello spazio, ed è cresciuta la qualità della cooperazione industriale e coordinamento tra gli Stati membri. Manca, però, una visione strategica d’investimento: i fondi stanziati dal bilancio europeo per il programma spaziale per il periodo 2021-27 assommano a 16 miliardi di euro. La priorità “spazio” è chiaramente enunciata; gli investimenti comuni non sono sufficienti per competere davvero e i 16 miliardi bastano appena per continuare a mantenere le costellazioni Galileo e Copernicus. Resta il peso delle scelte nazionali dei singoli Stati membri. Si prenda il caso più rilevante, quello della Francia. Lo scorso anno, nel corso della parata del 14 luglio, Emmanuel Macron ha annunciato la creazione di un comando francese responsabile delle operazioni spaziali e la difesa nella zona extra-atmosferica. Una risposta alla analoga mossa statunitense, basata su una vera e propria strategia militare spaziale.

Fin dagli albori dell’esplorazione, lo spazio ha rappresentato un piano implicito della competizione geopolitica. Negli ultimi anni, è diventato anche emblematico della complessità e della fragilità di un ordine internazionale in declino. I vuoti lasciati dalla pax americana vengono regolarmente “testati” da potenze autoritarie in ascesa. 

Perché l’Europa non diventi un vaso di coccio tra vasi di ferro, è necessario non soltanto ampliare le risorse dedicate al programma spaziale, ma ripensare i paradigmi della politica di sicurezza, integrando lo spazio – più decisamente e rapidamente di quanto già non avvenga – nelle considerazioni strategiche europee. L’astropolitica, oltre la geopolitica.