02.10.2023 Vincenzo Pisani

Il nostro Nirvana. Intervista a Gabriele Salvatores

Il 1997 era l’anno in cui due studenti dell’Università di Stanford, Larry Page e Sergey Brin, registravano il dominio di un motore di ricerca che puntava a organizzare l’informazione del mondo.

Leggenda vuole che il suo nome, Google, derivi da googol, neologismo creato molti decenni prima dal matematico Edward Kasner per indicare numericamente una cifra così abnorme – uno seguito da cento zeri – da arrivare quasi a evocare l’infinito.

E proprio in quell’anno, mentre Google emetteva i suoi primi vagiti e internet contava già settanta milioni di utenti a livello globale, in Italia il regista Gabriele Salvatores portava nelle sale una storia visionaria, anticipatrice e del tutto innovativa nei contenuti e nei canoni stilistici del nostro cinema. In tempi ancora vergini rispetto all’uso di piattaforme social, quando gli smartphone abilitati al web erano un’assoluta novità, il già premio Oscar Salvatores (lo aveva vinto nel 1992 con “Mediterraneo”) immaginava una storia ambientata in un mondo tecnologicamente più avanzato, con un protagonista, Solo, che per via di un virus digitale, si rende conto all’improvviso di essere nulla più che il personaggio di un videogioco ambientato in una dimensione che oggi definiremmo metaverso. Un quarto di secolo dopo l’uscita del film “Nirvana”, l’intuizione del regista italiano resta un caso unico. Con poche eccezioni, tra le quali “La decima vittima” di Elio Petri – in cui l’ambientazione avveniristica gioca più come espediente per una riflessione critica sul boom economico del dopoguerra –, “Nirvana” resta la sola vera grande produzione italiana nell’altrimenti mai frequentato territorio della fantascienza. Ne parliamo con il regista.

Quali suggestioni la ispirarono nella realizzazione di un film come “Nirvana”?
Nel 1997 regnava ancora una scarsa conoscenza da parte del grande pubblico della realtà virtuale, di internet e in generale del concetto di digitale. Tanto che alcuni spettatori, uscendo dalle sale dopo aver sentito parlare di virus informatici, temevano di poter essere stati in qualche modo contagiati. Personalmente, sono sempre stato appassionato di fantascienza, che si trattasse di romanzi o film. In particolare, tra gli anni Ottanta e i primi Novanta, uscirono parecchie opere cinematografiche o letterarie che contribuirono a creare e ad alimentare il movimento cyberpunk. Philip K. Dick ne è stato antesignano, sono seguiti autori considerati esponenti di spicco di questo genere narrativo, come Bruce Sterling, William Gibson, Neal Stephenson. I loro romanzi sono stati per me una grande fonte di ispirazione per arrivare a immaginare un film come “Nirvana”. Ma per inquadrare l’humus di quegli anni, ci tengo a ricordare che internet era considerato ancora un territorio di libero scambio virtuale. I primi internauti venivano chiamati cowboys, con un riferimento ideale alla frontiera americana, uno spazio libero, nuovo, tutto da esplorare e in cui confrontarsi o costruire qualcosa. In realtà già allora la rete stava cominciando a trasformarsi in un grande supermercato ed era molto meno libera di quanto sembrasse. Mi piace ricordare che i primi progettisti della Apple erano dei post-hippies, cresciuti con i movimenti e le grandi manifestazioni di protesta dell’Università di Berkeley in California. In altre parole, c’era una dimensione libertaria che si è andata poi perdendo. Se questo è il contesto socioculturale che mi ha ispirato, ci sono due scintille che non posso non menzionare. Una più ludica, l’altra più profonda.

Partiamo dalla scintilla più ludica. 
Durante le riprese dei film precedenti, lavorando con Diego Abatantuono e Fabrizio Bentivoglio, spesso nei momenti di pausa ci sfidavamo a calcio in un videogame. Ricordo che una sera Diego ci chiese «ma secondo voi, una volta spenta la console, i giocatori cosa faranno? Andranno a farsi la doccia, usciranno con le fidanzate?». Mi piacque molto quest’idea di una azione che si prolungasse anche oltre il gioco video-comandato, una storia in grado di proseguire in autonomia in quello che oggi noi chiameremmo metaverso. E ha gettato un primo seme per iniziare a lavorare su “Nirvana”.

E la seconda scintilla? 
Proprio in quel periodo, per l’esattezza nel 1994, Kurt Cobain, leader di un grande gruppo rock, i Nirvana, purtroppo decise di togliersi la vita, lasciando un biglietto in cui citava una frase di Neil Young «È meglio bruciare in fretta che spegnersi lentamente» per poi aggiungere «non riesco a stare più in questo gioco». Le sue parole mi hanno fatto pensare all’elemento del gioco e al nome stesso del gruppo, Nirvana, che prende spunto da quello che per diverse religioni e filosofie orientali è la liberazione da ogni sensazione e quindi anche dal dolore. In altri termini, è lo spazio in cui finalmente non si deve più giocare, nel senso di agire. Noi occidentali abbiamo un concetto della reincarnazione positivo, come opportunità di sperimentare più vite. In Oriente invece è considerata quasi una condanna al ripetersi di situazioni e azioni già vissute. E se ci pensiamo, visto che vivere è complicato, spesso doloroso, non è poi così fuorviante pensare che valga la pena liberarsi da questo gioco all’infinito. Raggiungere il Nirvana, staccarsi dalla realtà, è un obiettivo desiderabile. 
In breve, questi sono stati i diversi stimoli che contribuirono allora alla creazione del mio film: temi tecnologici, filosofici, esistenziali. Questioni che tuttora trovo affascinanti. Tuttavia, proprio guardando alla tecnologia, andando avanti negli anni, sto diventando sempre più critico rispetto a possibili derive. In particolare, se penso all’intelligenza artificiale, continuo a considerare fondamentale il primato dell’umano e dell’intelligenza organica, senza la quale corriamo il pericolo di essere governati dalle macchine.

Ci sono dei rischi legati alle nuove tecnologie? 
Basta guardare alla nostra realtà quotidiana. Siamo sempre più schiavi degli strumenti digitali – smartphone, iPad, piattaforme social – che ci portano a vivere come fossimo costantemente allo specchio. Ci sembra d’essere connessi con le persone, ma in concreto non lo siamo. Si sta perdendo sempre più il piacere e l’importanza del rapporto fisico, umano, diretto. Oltre a ciò, dobbiamo essere cauti nell’impiego dell’IA. È uno strumento straordinario, che può agevolare il nostro lavoro, può contribuire in modo positivo a molte attività umane. Ma le possibili derive sono più vicine di quanto si possa immaginare. Nel settore del cinema è stato appena sviluppato un software che permette di modificare il movimento delle labbra di un attore, addirittura per farlo parlare in un’altra lingua, evitando pertanto il doppiaggio. Si intuiscono i pericoli dietro a impieghi impropri di una tale tecnologia, per esempio per scopi politici.

E che cosa pensava invece 25 anni fa, guardando alle innovazioni tecnologiche di allora? 
Già allora nutrivo dei dubbi. Lo dimostra il fatto che immaginai il protagonista di “Nirvana” come un avatar di un videogioco che desiderava cancellare per scomparire insieme a esso. Un personaggio, dunque, che esprimeva un sostanziale malessere, un disagio verso questa dimensione virtuale, in cui tutto si ripete all’infinito. Ciò detto, non nego lo straordinario potenziale della tecnologia e, in particolare, della digitalizzazione, anche guardando proprio all’industria del cinema. Sono stato tra i primi a girare un film totalmente in digitale, con le telecamere invece che con le macchine da presa, e anche tra i primi a montare il girato con il computer invece che con le moviole. Attività che ora sono prassi quotidiana. Dunque, da una parte sono sempre stato aperto all’innovazione, dall’altra ho avuto un approccio critico, cauto. Soprattutto in tema di realtà virtuale e IA, dimensioni via via più pervasive e in continua evoluzione. Oggi corriamo seriamente il rischio di non saper più distinguere tra realtà fisica e virtuale.

È questo lo scenario che, secondo lei, ci attende? La perdita di confini tra fisico e virtuale? 
Per rispondere, cito un passaggio di “Nirvana”, in cui Solo – il protagonista del videogioco – è deciso a rivelare a Maria, una giovane prostituta, la verità sulla loro condizione. La incalza ad aprire le ante del suo armadio, a scostare i vestiti. La verità è lì, davanti ai loro occhi. Nelle fattezze di un sistema di circuiti digitali, di dati che viaggiano lungo autostrade virtuali. Intelaiature di un mondo fittizio, in cui Solo, Maria e tutti gli altri personaggi del videogioco sono costretti a ripetere le loro azioni all’infinito. «Ma perché mi fai questo?» reagisce il personaggio interpretato da Amanda Sandrelli. Forse era meglio non sapere, restare nell’illusione. Esattamente come oggi, a distanza di quasi trent’anni dall’uscita di “Nirvana” il metaverso può essere al contempo un’opportunità e un rischio. Possiamo impiegare il metaverso per l’apprendimento, lo studio, la ricerca e molto altro. Ma può anche diventare una fuga verso mondi più desiderabili, sogni in cui perdersi per dimenticare il nostro piano di realtà.

Come, per esempio, un metaverso in cui, seppure anziani, possiamo indossare dei visori, muoverci e interagire con altri avatar ritrovando una nuova giovinezza. In fondo potrebbe essere una forma di welfare. 
Sì, è uno scenario possibile, uno dei vari su cui stanno attualmente lavorando i tecnologi. Uno sviluppo che, in tutta franchezza, non ritengo desiderabile. Cosa andremmo a cercare in queste interazioni? Mi sembra qualcosa di molto simile all’onanismo.

Del resto, il sesso virtuale è stato e continua a essere uno dei driver di sviluppo della rete. Potrebbe esserlo anche nel metaverso. 
Sì certo. Ma, non credo sia desiderabile sostituire l’interazione fisica con quella virtuale, seppure questo possa in qualche modo – attraverso un nostro avatar più attraente e più giovane – donarci qualche istante di fuga dalla realtà.

Se le proponessero, come regista, di contribuire a realizzare un progetto di costruzione virtuale, un videogioco, una dimensione metaversica, o qualche altra replicazione digitale di un ambiente, lei accetterebbe? 
Non lo so. Confesso che ho anche molte riserve a dirigere delle serie TV. Sono un uomo di cinema e il cinema è un mezzo autoritario in un certo senso. È il regista che decide cosa lo spettatore potrà vedere. Ed è il regista a dirigere una storia che ha un inizio e una fine. Non mi piacerebbe sapere che avendo costruito una grande scena di guerra, un utente si stia concentrando sul movimento marginale di un sotto-protagonista del videogioco che ho costruito. Ciò detto, ho la massima stima per gli sviluppatori di giochi o di mondi virtuali, è solo che non è il mio mestiere. Ci tengo a ribadire che nessuna cosa è buona o cattiva. Dipende dall’uso che se ne fa. Si discute molto dell’ultimo film di Christopher Nolan, “Oppenheimer”, dedicato al creatore della bomba atomica. L’energia nucleare può essere una forza straordinaria, positiva, che contribuisce al progresso. O può diventare una forza distruttiva.

C’è una storia interessante su “Nirvana”. Una specie di sopravvivenza della storia rispetto a sé stessa. In un angolo dell’universo virtuale, i suoi personaggi, quelli creati da lei, continuano a vivere. È un progetto dell’Università Sapienza
Sì, nell’ambito di un corso di Arti Visive, gli studenti hanno creato un piccolo metaverso che permette agli utenti di entrare in contatto e interagire oggi, a distanza di oltre venticinque anni dall’uscita del film nelle sale, con i personaggi di “Nirvana”, ognuno dei quali ha il suo avatar e continua a vivere. Trovo molto affascinante e gratificante che a lavorare su questo progetto siano giovani che non erano nati quando realizzai il film e che non lo avevano neppure mai visto. Ma questo, invece di essere un limite, è diventato un ulteriore elemento di libertà creativa. Nella realizzazione degli avatar, gli studenti hanno donato ai personaggi nuove vite e nuove possibilità. Lo stesso Solo, che un tempo voleva morire, uscendo dal gioco, ha scoperto di non dover necessariamente ripetere le stesse azioni all’infinito. Può cambiare scenari e interazioni. C’è in fondo un barlume di speranza, persino nel metaverso.


Realizzerebbe oggi un film come “Nirvana”? 
Sì. Continuo a considerare questo tema pieno di fascino, di profondità, di stimoli. Ed è uno dei film a cui voglio più bene insieme a “Io non ho paura”.

Più di “Mediterraneo”? 
Per me sì. So che “Mediterraneo” è più rotondo, più accattivante e forse più immediato. Ma “Nirvana” resta decisamente tra le storie che più ho amato raccontare.

Il destino di Solo

Nell’anno accademico 2022/23, il corso di Transmedia Studies-Laboratorio di analisi dell’immaginario e dello storytelling, attivo presso il Dipartimento di Comunicazione e Ricerca Sociale di Sapienza Università di Roma, ha lanciato un project work che ha previsto la realizzazione di un reboot – da parte degli studenti – del film “Nirvana”, a 25 anni dalla sua uscita nelle sale. Coordinato da Silvia Leonzi e da Riccardo Milanesi, il progetto formativo ha visto la partecipazione di più di cento studenti, suddivisi in gruppi di lavoro, in funzione dei media impiegati e delle tematiche trattate: podcast, ARG (Alternate Reality Game), canali social, metaverso e comunicazione. Il progetto transmediale ha visto coinvolto Gabriele Salvatores. In occasione del venticinquesimo anniversario dell’uscita di “Nirvana” (1997), il regista ha accettato di collaborare con il corso di Transmedia Studies per dare vita a una forma di espansione del film in chiave transmediale. In una lectio magistralis Salvatores ha raccontato la genesi e l’evoluzione del film, e ha lanciato il progetto ispirato a “Nirvana”, interamente realizzato dagli studenti del corso. Grazie al loro lavoro, coadiuvato e coordinato dai professori, i personaggi e i luoghi del film hanno preso vita attraverso i media che nel 1997 il film ha solo preconizzato: smartphone, social media, realtà virtuale, videogiochi immersivi e metaverso. 

L’evento si è concluso con l’ingresso di Salvatores proprio nel metaverso, dove ha incontrato i suoi stessi personaggi, entrando in prima persona all’interno dell’universo narrativo del film, ripreso, sviluppato ed espanso.