Il terrorismo, le crisi economiche, il climate change, il covid. Tante emergenze, che forse fanno più male, quando in fondo non sai perché le stai affrontando. O per chi.
Ecco il tema di un incontro organizzato da Fondazione Leonardo - Civiltà delle Macchine in collaborazione con il Centro Studi Americani: "Le nuove dimensioni della geopolitica". Una conversazione con Leon Eduward Panetta, US Secretary of Defense 2011-2013, a cura di Monica Maggioni, giornalista RAI.
L'introduzione è di Luciano Violante, Presidente della Fondazione: "È uno scambio importante, anche per la presenza nel pubblico di alcuni dei maggiori responsabili delle forze armate italiane".
Leon Panetta, già Direttore della CIA che eliminò Bin Laden, non ha dubbi: il muro c'è ancora, è il fronte ucraino. Di là sta la Russia, ma soprattutto la Cina. Cedere un centimetro a Putin oggi, significa perdere un chilometro di Taiwan domani.
Leon Panetta un'agenda ce l'ha, ed è venuto a parlarcene: al primo posto la sicurezza, la sicurezza delle persone. Devono poter vivere tranquille. Ma al secondo posto viene il (buon) governo, una leadership forte garantisce una democrazia forte, in grado anche di smorzare le emergenze: "la politica si fa o con la leadership o con le crisi. Nel passato recente l'abbiamo fatta con le crisi, ora facciamola con la leadership". Al terzo posto le alleanze, il dialogo, perchè questo è l'Occidente, in questo siamo bravi. Lo testimoniano gli ultimi sessant'anni di rapporti italo-americani.
Leon Panetta, egli stesso italo-americano, un piano ce l'ha, per l'America e per l'Italia. Ed è un piano ambiziosissimo: lo chiama "riglobalizzazione". Dopo decenni di "austerity" e "resilienza", una parola d'ordine come questa è una ventata di ottimismo, di pura affermazione, l'affermazione di un occidente che non tramonta, e se tramonta rinasce.
Sono passati sessant'anni dallo storico tour europeo di J.F.K, quello del celebre discorso sulla Porta di Brandeburgo ("Ich bin ein Berliner"), ma anche dell'abbraccio di Napoli, quasi un milione di festanti in strada. L'Italia adora J.F.K, è entusiasta. Sono gli anni del Boom e del miracolo italiano: Mr. President atterra all'aeroporto di Fiumicino, costruito da poco (1961), mentre l'Autostrada del Sole sarebbe stata inaugurata l'anno seguente.
Erano anni di ottimismo in un mondo tremendo, ma tremendamente chiaro, spaccato a metà. Noi di qua, loro di là: "la democrazia non è perfetta ma non abbiamo mai costruito un muro per tenere dentro i nostri".
Sono passati sessant'anni, di cui trent'anni privi di muro e pieni di domande. Domande sul tramonto dell'Occidente e sulla fine della storia, sull'identità dell'Europa e dell'Italia, sul nostro nuovo ruolo in un nuovo mondo, che dal crollo del muro non si è ancora assestato.
Diceva bene Nietzsche: insopportabile non è la sofferenza, ma la sua assurdità. E oggi, forse, manca una grande narrazione, o la fiducia in una grande narrazione, che dia senso al ruolo dell'Occidente, dell'Europa, dell'Italia nel mondo.
Un ruolo strategico ce l'avevamo. Una dialettica interna che percepivamo come decisiva.
Ma la nostalgia non serve a niente. Serve un'agenda, serve un piano.
Il piano di Leon Panetta passa per l'Africa. E per quel ponte che l'Italia è.
Oggi, l'Italia un suo ruolo strategico ce l'ha. Ce l'ha per natura e per cultura, per la sua geografia e per la sua storia.
È la culla dei valori che un'emergenza come quella migratoria può mettere in discussione.
Possiamo affrontarla come crisi o possiamo affrontarla con un approccio strategico lungimirante.
Come un ponte, non come un muro. Da questa scelta dipende l'Occidente.