Homo filmans, la simbiosi tra corpo e macchina

20 ottobre 2022

Di Ginevra Leganza e Francesco Pontorno

L’uomo è un animale incompiuto, bisognoso di protesi, proteso oggi in uno smartphone. Ma c’è qualcosa in più dell’appendice nello smartphone, dove a differenza d’ogni altro utensile vi approda anche l’anima. Quella che in questo preciso momento – nella forma del “Metaverso” – s’impone nell’homo sapiens per rinnovarlo in homo filmans. 
L’uomo filmante muove i suoi primi passi col telefono in mano. Allorché questo si riempie di funzioni e applicazioni. Tanto per cominciare il telefono fagocita l’obbiettivo fotografico. E quel che sembrava appannaggio di professionisti o amatori – la fotografia – diventa un atto democratico. Quasi quotidiano. Da lì in poi foto e videocamera non ci hanno lasciato mai. Secondo una stima di Keypoint Intelligence nel 2021 l’umanità avrebbe scattato 1,4 bilioni di foto. Una cifra astronomica che dice della portata e della costanza dell’immagine digitale nelle nostre vite. 
Ma il tornante che vede l’uomo “sapiente” assumere la veste di perenne “filmante” è questo che siamo intenti a vivere. TikTok e reels immortalano ogni frazione del quotidiano e trasformano il telefono in ponte per accedere all’interno. Perché lo smartphone filma fuori, ma filma anche dentro: è la sonda che misura pensieri e desideri. 
L’homo filmans vive in doppia tensione. Col telefono, inseparabile dai polpastrelli, “nella mente si produce una estroflessione”. Così scrive un gruppo di ricercatori in Le tecnologie educative (Carocci). “La mente trasferisce il carico sul supporto tecnologico alla stregua di ciò che accade sul piano fisico quando si usa una stampella per camminare”. Ed ecco che l’uomo-video, sempre immerso in un display, trasforma lo smartphone in stampella. E, a poco a poco, in un suo secondo “io”. Ma il movimento non è solo esterno se riflettiamo sull’impatto inverso. L’uomo filmante è utente e pure “utilizzato”. Non è solo soggetto cliccante se si presta a essere oggetto di una lenta, importante metamorfosi. 
Oggi si parla di maggiori margini di plasticità del cervello rispetto al passato: attraverso il neuroimaging (le tecniche di scansione tecnologica) si è provato che esercitare intensivamente una certa attività può modificare la struttura cerebrale.


Cliccare, surfare, filmare impattano sulla mente in maniera non meno significativa dell’esercizio musicale. O della guida dell’automobile. Quel che all’inizio costa fatica (leggere uno spartito, entrare in confidenza con marce e pedali) a lungo andare diventa automatico. Insomma, come con l’auto e col pianoforte, a un certo punto si entra in simbiosi col telefonino. E la testa si trasforma: la profondità è scalzata dalla velocità; l’analisi, dalla scelta tempestiva e mirata di un link; il testo scritto su carta, dai pixel in movimento… E tutto questo oggi diventa materia di studio della “tecnologia cognitiva”, la scienza nuova che interroga l’interfaccia uomo-display e si domanda cosa accade quando ci si porta appresso un telefono come un paio d’occhiali sul naso. Quando il corpo assume un oggetto con sé e lo integra al punto da non percepirlo quasi più come estraneo.
Da un certo punto di vista – si potrà pensare – nessuna nuova sotto il sole. Siamo i viventi che per estremo bisogno intrecciano la tecnica alle proprie nudità. Eppure, se la protesi del primo homo sapiens era una propaggine per meglio sopportare scoprire e servirsi del mondo esterno, la nuova appendice segue un senso differente. Il telefono è una stampella sociale e intellettuale, s’è detto. È il mezzo che supporta l’uomo. Ma è anche la sonda che gli scava dentro. È bastone e bastione dell’io, del suo intelletto e dei suoi desideri. Pensiamo al semplice atto dovuto di compilare una “bio” sui social network, e di scrivere di sé quel che si vuole: l’utente costruisce la sua identità digitale volontaria. E a quello stesso telefonino rivela – più che la sua essenza – i suoi desideri, le sue ambizioni, le pulsioni… E pensiamo ancora al fatto che i neonati, oggi, percepiscono non uno ma due volti: quello della madre e quello del tablet su cui la madre smanetta e in cui presto s’immergeranno anche loro. 
Dopo telescopi e microscopi, l’evoluzione spiana la strada all’abisso. A quell’involucro senza fine che è l’uomo stesso, impossibile da scandagliare per intero. Ma generoso nell’offrirsi allo schermo filmante che forse, questa volta, potrà andare oltre. In quel sogno eterno di voler toccare il fondo.