Immortalità artificiale e l’importanza dei ricordi

12 maggio 2023

Di Serena Ricci

Nel 1975 apparve per la prima volta il manga “Jeeg robot d’acciaio” ideato dal fumettista e animatore giapponese Go Nagai e disegnato da Tatsuya Yasuda, dove il professor Shiba, padre del protagonista Hiroshi, prima di morire, crea un ologramma nel quale riversa tutta la propria conoscenza per portare consiglio al figlio nella battaglia contro l'antico regno Yamatai che dovrà sconfiggere trasformandosi nel robot d’acciaio Jeeg.

Quasi 50 anni dopo è palpabile l’aspirazione a creare un’intelligenza artificiale che analizzi moli di dati al fine di creare non solo un chatbot in grado di replicare i nostri comportamenti anche dopo la nostra morte, ma addirittura di riprodurre le fattezze e la voce di un defunto rendendoci immortali. Ma davvero aspiriamo all’immortalità? Potrebbe essere considerata una conquista? In un saggio del 1973 di Bernard Williams “The Makropulos case: reflections on the tedium of immortality”, che mutua il titolo da un’opera teatrale  del ceco Capek, noto anche nella versione operistica di Janacek, si analizza l’immortalità. La protagonista dell’opera originaria è una donna che negli anni sarà Elina Makropulos, Emilia Marty, Ellian Macgregor e una serie di altre persone con le iniziali "EM", sulla quale il padre, medico di corte di un imperatore del XVI secolo, sperimenta un elisir della vita. Arrivata alla soglia dei 342 anni EM decide di non prendere più l’elisir perché si annoia a morte (appunto) perchè “alla fine è sempre la stessa cosa, canto e silenzio". Secondo Williams la cosa buona è che immortali non siamo :“L'immortalità, o uno stato senza morte, non avrebbe senso(…) la morte dà il senso alla vita.” Non significa che non bisogna avere paura della morte, ma che non è necessariamente un male non solo perchè pone fine alla sofferenza, ma nel senso che all’infinito la vita è priva di significato.

Dunque dovremmo pensare a ciascuno di noi felix opportunitate mortis, come dire, fortunato nell’avere la possibilità di morire. Della stessa opinione è anche Martha Nussbaum che riprende la tesi di Williams e, in un capitolo del suo “La terapia del desiderio”, sottolinea che è proprio la finitezza del tempo a dare senso alla nostra esistenza. Se anche noi come gli dei dell’Olimpo fossimo immortali, scomparirebbero anche le nostre virtù compreso il coraggio che si annullerebbe nel caso di una vita senza fine. Infatti, in un periodo troppo lungo, diventeremmo tutto e il contrario di tutto, non mantenendo più un’individualità e soprattutto mutando personalità e valori. Forse è anche più bello pensare che i nostri cari mantengano vivo il nostro ricordo aiutandosi con fotografie o video che colgono le nostre espressioni originali al meglio e che strappano un sorriso con un meccanismo naturale: la nostalgia.