“Occupare il futuro”: un cammino nuovo per immaginare e costruire il domani

26 maggio 2022
Recensione del saggio di Roberto Paura

Di Vincenzo Pisani

Un giorno di tarda estate, anno 1943, un quotidiano della cittadina di Ashford, a circa ottanta chilometri a sudest di Londra - titolava “Morte per fame: Il curioso sacrificio di una professoressa francese”. Con questa breve nella cronaca locale si concludeva l’arco esistenziale di colei che Albert Camus definì “l’unico grande spirito dei nostri tempi“. La docente cui si riferiva la notizia era Simone Weil, spentasi a trentaquattro anni in un sanatorio del Kent, dopo aver vissuto mille vite in poco tempo, abbracciando idee, speranze e delusioni di un secolo entrato proprio in quegli anni nel suo periodo più buio. Figlia di una colta famiglia ebrea non praticante, fu una tra le prime donne ad avere accesso ai corsi del celebre filosofo Émile-Auguste Chartier, strenuo difensore della pace negli anni del primo conflitto mondiale. Terminati gli studi all’École Normale, insegnerà filosofia nelle scuole di alcune città della provincia francese, non smettendo mai di interessarsi alle condizioni delle classi più disagiate. Si unirà agli scioperanti, militerà come sindacalista e arriverà a condividere il suo salario con i disoccupati. Dotata di raffinata intelligenza e straordinaria sensibilità, si renderà conto in anticipo dell’ascesa del nazismo, impegnandosi a denunciare – attraverso articoli contro i totalitarismi di destra e di sinistra - la deriva che stava per travolgere l’Europa. La sua sincera vicinanza alle istanze del mondo operaio, la spingerà a provare sulla sua pelle i ritmi e le fatiche del lavoro in fabbrica, facendosi assumere presso alcune officine metallurgiche di Parigi e mettendo alla prova le sue già precarie condizioni di salute. Nei suoi ultimi anni si avvicinerà al cristianesimo, pur conservando un spirito profondamente laico, per non smarrire la libertà teoretica di ricercare il senso, la verità oltre ogni dogma. Un’apertura di pensiero e d’animo che le avrebbe consentito di intraprendere un’intensa riflessione spirituale, immergendosi nello studio della cultura greca e del primo cristianesimo. Avrebbe desiderato approfondire anche la conoscenza del mondo musulmano, ma il suo breve e intenso percorso umano volgeva già al termine. La sua salute si indebolirà irreversibilmente in parallelo con l’inasprirsi del conflitto bellico, allorché, per solidarietà con i suoi concittadini, ridurrà l’alimentazione ai limiti consentiti dalla tessera di razionamento. L’epilogo è scritto in quel breve titolo di un giornale locale, all’indomani della sua morte: 24 agosto 1943. La grande eredità umana ed intellettuale di Simone Weil emergerà soltanto dopo, in un’Europa ridotta in macerie, ma in cerca di nuove speranze, di un nuovo inizio

I Giardini del Lussemburgo dipinti da Henri Rousseau, dove Simone Weil passeggiava da studentessa

Non stupisce ritrovare, oggi,  quell’eredità esattamente al centro e nelle conclusioni di una importante e articolata riflessione sul tema del futuro: il messaggio – al tempo stesso critico e carico di speranza – della filosofa francese rappresenta infatti uno dei cardini del percorso intrapreso da Roberto Paura (giornalista, scrittore, presidente del centro di ricerca Italian Institute for the Future e cofondatore dell’Associazione Futuristi Italiani) per tracciare l’evoluzione dei Futures Studies dalle loro origini fino ad oggi, e prospettare nuove soluzioni, un nuovo approccio alla costruzione del domani. Il saggio “Occupare il futuro” ci guida in un viaggio declinato su tre momenti. Il primo, “occuparsi del futuro”, è una ricostruzione della genesi, delle figure e degli scenari della futurologia, che attraversa la crisi dell’epoca moderna fino all’avvento della post-modernità. Il secondo, “preoccuparsi del futuro”, affronta le problematiche globali che hanno animato il dibattito dei futurologi nel corso degli anni: dalle simulazioni sul sistema-mondo - che metteva in relazione cinque questioni generali (aumento della popolazione, disponibilità di cibo, consumo di materie prime, sviluppo industriale e inquinamento) attraverso il linguaggio della simulazione informatica -   agli studi sui rischi esistenziali dell’umanità (le mille possibili apocalissi che ci attendono). Il terzo ed ultimo - “occupare il futuro” – è la destinazione del viaggio: la via d’uscita dalle tecno-utopie e dal paradigma della futurologia classica, per aprirsi finalmente ad un nuovo orizzonte di aspirazioni, attraverso la riscoperta di una categoria tanto antica quanto profondamente attuale: la speranza.

Ed è qui, nello svelamento delle derive tecnocratiche, che l’eredita weiliana riaffiora, come un fiume carsico, nelle pagine di Paura. La filosofa francese – nei suoi scritti del 1942, ormai prossima alla sua fine – mette su carta un vero e proprio manifesto del suo pensiero, capace di delineare il progetto di una società nuova, basata sulle “esigenze dell'anima” e non più sui “meccanismi di oppressione”. Quegli scritti, pubblicati postumi nel 1949, diverranno “La prima radice”: un’opera che avrebbe ispirato generazioni di filosofi e scrittori, fino ad arrivare ai nostri giorni. “Simone Weil – scrive Paura - aveva intravisto - tra le prime - i rischi di un mondo basato sul numero o, meglio ancora, sul simbolo. A suo dire, la matematica delle origini, quella scoperta dagli antichi greci, aveva come obiettivo stabilire un’identità di struttura fra la mente umana e l’universo, scopo andato perduto con lo sviluppo dell’algebra moderna. I greci avevano capito, attraverso la scoperta dei numeri irrazionali, che definiscono i rapporti incommensurabili, che è possibile descrivere la realtà anche al di fuori di rapporti puramente quantitativi, poiché «dire che tutto è un numero, in senso letterale, è una lampante stupidaggine». Affidarsi esclusivamente ai numeri senza considerare i rapporti tra le cose che i numeri rappresentano, produce ciò che Weil chiamava «sradicamento». Nei suoi scritti, la filosofa descriveva la condizione dell’uomo della metà XX secolo, degli operai addetti alle catene di montaggio. Costretti a compiere gesti ripetitivi, ignari del funzionamento dell’ingranaggio tecnico su cui operano e non consapevoli dello scopo delle loro azioni, costoro finiranno per sentirsi sempre più alienati. Per chiarire tale concetto, Weil crea un parallelismo tra la società industriale e un mondo ridotto a mere formule matematiche. E ciò che non è comprensibile, può trasformarsi in un vettore di oppressione sociale


Come suggerisce Paura, il mondo descritto da Weil - lo sradicamento di cui ci parlava nell’Europa del secolo scorso - diventa il nostro: non è dissimile dalla condizione che si sperimenta in una realtà sempre più digitalizzata, dominata da piattaforme. Piattaforme che generano dati. Dati che servono ad alimentare algoritmi. Algoritmi che influenzano le nostre scelte, i nostri pensieri, i nostri desideri. È lo scenario della società algoritmica, in cui le macchine, in quanto applicazioni tecniche di una matematica disancorata dalla realtà, diventano strumenti incomprensibili, che subiamo e assecondiamo, per lo più inconsapevolmente. Questa alienazione è la diretta conseguenza di quel “soluzionismo tecnologico” che rappresenta la condizione del nostro presente: un presente che, più o meno inconsapevolmente, proiettiamo anche nelle nostre visioni di futuro, impedendo a noi stessi la costruzione di possibili alternative a ciò che già conosciamo: futuri talvolta utopici, altre volte distopici, ma pur sempre ipertecnologici. La nostra fantasia partorisce immagini che ruotano attorno ad estensioni ipertrofiche dell’oggi - calcolatori sempre più potenti, colonie su Marte, uomini-macchina immortali – che già riempivano le pagine dei romanzi di fantascienza del primo Novecento. “Ammaliati dalle straordinarie possibilità delle tecnologie digitali, dal calo dei prezzi dei beni voluttuari, dai costi stracciati dei biglietti per girare il mondo, non facciamo caso al fatto che a godere dei maggiori benefici di tutto questo sia una ristretta élite, che vede aumentare la propria ricchezza”. Rischiamo, se usassimo il linguaggio di Antonio Gramsci, di cadere nell’inganno dell’egemonia culturale: “per conservare la loro egemonia sui gruppi subalterni, coloro che detengono il potere devono imporre agli altri la loro visione del mondo, affinché venga interiorizzata e data per scontata”. La visione del mondo che definisce la moderna forma di egemonia culturale – sostiene Paura – è appunto il presentismo: soffriamo di una sostanziale incapacità di pensare al futuro, inteso come orizzonte di lungo termine. Dominano tanto le retoriche futuristiche – tutte incentrate sull’avanzamento tecnologico, quale incarnazione stessa del progresso – quanto l’ideologia della crescita economica perenne. È ciò che il sociologo Alvin Toffler aveva preconizzato quando scriveva che, attraverso il primato dell’industrialismo, ogni differenza tra sistemi sociali diversi sarebbe svanita. “La contrapposizione solo apparente tra Stati Uniti e Cina, protagonisti della nuova guerra fredda del XXI secolo, ne è una dimostrazione: le due superpotenze condividono gli stessi princìpi, rappresentati dall’accelerazione intesa come crescita economica perenne, sviluppo tecnologico costante e creazione di una società 24/7, in cui le persone sono intrappolate in un eterno presente. Un’accelerazione che produce alienazione, nella misura in cui siamo spinti a fare cose che non ci piacciono, anche se non vengono imposte, poiché le abbiamo semplicemente introiettate come naturali, convinti che non possano esserci alternative. “Non c’è alternativa” al realismo capitalista, adoperando uno slogan associato alle campagne politiche di Margareth Thatcher


Di fronte alla negazione di altri possibili scenari, il rischio è quello di cadere in una “nostalgia del futuro”, in ciò che il sociologo Zygmunt Bauman chiama “retrotopia”, vale a dire la speranza di una società diversa e migliore, non più riposta nel futuro, ma nel passato. Intrappolati in un loop che mescola i piani temporali, vaghiamo tra gli “spettri dei futuri possibili”, ci nutriamo di quell’hauntologia” di cui parla il filosofo Mark Fisher, un termine che il filosofo britannico mutua dagli scritti del suo collega francese, Jacques Derrida per riferirsi alle visioni distopiche del domani: alcune evocate nel passato e mai avveratesi, altre temute e collocate in un futuro di là da venire. 

In altre parole, una contemporaneità dominata dalla scomparsa di nuove prospettive, poiché l’intero orizzonte è stato occupato da un’unica visione. Paura cita a riguardo lo scrittore Roberto Calasso che, definisce la nostra epoca come innominabile attuale: un’epoca in cui “è come se l’immaginazione si fosse amputata, dopo millenni, della sua capacità di guardare oltre la società, alla ricerca di qualcosa che dia significato a ciò che accade all’interno della società. L’assenza di prospettive lascia dunque campo libero ad un post-moderno incapace di guardare oltre all’egemonia delle GAFAM: Google, Facebook, Apple e Microsoft. Le nostre volontà si uniformano alle loro. La sociologa Barbara Adam parla apertamente di “colonizzazione del futuro” operata dall’ordine economico neoliberale, il cui obiettivo è controllare il domani attraverso una serie di strumenti creati precisamente per esorcizzare la paura dell’ignoto, evocata dal futuro stesso. “Il presente colonizza il futuro e lo controlla per impedire che possa rappresentare uno spazio di cambiamento degli equilibri esistenti troppo radicale”. Detto in altri termini, secondo la sociologa britannica, siamo liberi di fantasticare sull’avvenire, di proporre e progettare fintantoché la nostra immaginazione non metta in discussione i rapporti di potere esistenti. 

Giunti alla conclusione della seconda tappa del viaggio di Roberto Paura attraverso la futurologia, ci si domanda se vi sia un qualche margine di manovra, o se resteremo, nostro malgrado, intrappolati nel loop del presentismo, delle retrotopie e dell’egemonia degli scenari ipertecnologici. La risposta arriva nella parte conclusiva del saggio. Per interrompere tale circolo vizioso, ci troviamo oggi nella condizione di dover provare a “riaprire il futuro” a renderlo nuovamente pensabile, agibile, trasformabile: tornare ad immaginarlo “altro dal passato e dal presente”. Compiere questo salto culturale, sostiene Paura, è l’inizio di un nuovo percorso, in cui sia finalmente possibile esplorare nuovi territori, nuove possibilità per la costruzione del domani in cui vorremmo abitare. 
Tre gli ingredienti indispensabili – suggerisce Paura – per avviare questa nuova fase. 
Serve innanzitutto adottare un approccio transgenerazionale: un legame solidale tanto tra le generazioni viventi, quanto tra quelle attuali e quelle che verranno, poiché il futuro – in termini di sostenibilità – è ciò che lasceremo in eredità al mondo di domani. E la compenetrazione tra le istanze e le aspirazioni delle diverse età è un presupposto imprescindibile per una società inclusiva, salda nell’alleanza tra la ricchezza delle esperienze dei più anziani e l’energia di chi è all’inizio o nel mezzo del proprio percorso esistenziale. 


Roberto Paura 

In secondo luogo, dobbiamo promuovere una democrazia anticipatrice, fondata, come suggeriva Mark Fisher, su un “ininterrotto plebiscito sul futuro”, un coinvolgimento continuo dell’opinione pubblica. Ne è un esempio concreto la Commissione Parlamentare per il Futuro, istituita in Finlandia nel 1993, che funge da collettore delle istanze provenienti dalla società civile per orientare la capacità del Governo di formulare piani di lungo termine in modo democratico. L’anticipazione, come suggerito dal teologo Jürgen Moltmann nella sua “Teologia della speranza”, è un paradigma nuovo, perché si alimenta di immagini e di aspirazioni che, situate nel futuro, provocano effetti nel presente. Come sostenuto dal futurologo austriaco Robert Jungk nei suoi Future Workshops, solo attraverso le speranze dei gruppi sociali è possibile scardinare il processo di colonizzazione del futuro da parte del presente.
Il terzo ed ultimo ingrediente, forse il più importante, è quello che ci riporta a Simone Weil: la conoscenza, intesa come consapevolezza del funzionamento e delle logiche che muovono la società algoritmica di cui siamo oggi parte. Comprendere il meccanismo, appropriarsi della logica che lo muove, significa cogliere anche il senso del proprio ruolo e delle proprie azioni, vuol dire poterlo eventualmente migliorare. È un approccio che porta ad un nuovo modo di concepire la scienza: non più uno strumento di utilità, ma un mezzo per acquisire verità, conoscenza. Tradotto nel 2022, come osserva Paura, “l’utente che userà una piattaforma digitale” dovrebbe “sempre essere consapevole del funzionamento degli algoritmi che la rendono possibile”, potrebbe finalmente riuscire a sottrare la tecnologia al controllo che vi esercita una ristretta élite di tecnocrati. Significa, in ultima analisi, elaborare nuovi paradigmi, in cui, come auspicava Simone Weil, gli umani non siano semplici ingranaggi di una macchina in continua accelerazione, ma protagonisti di “una nuova civiltà”.
Il viaggio di Roberto Paura si conclude dunque come un manifesto che prospetta un cammino nuovo per immaginare il domani e per costruirlo attraverso un progetto ampio e democratico, fondato su transgenerazionalità, partecipazione e conoscenza condivisa. Un progetto che inizia - come ci ricorda l’antropologo statunitense Arjuni Appadurai - dal riconoscimento che “il futuro è innanzitutto un fatto culturale”.
È un manifesto, quello che propone Roberto Paura, che vale la pena, oggi più che mai, leggere e su cui riflettere. In un’epoca che fatica a riemergere dalle conseguenze del cigno nero dell’emergenza sanitaria globale e si confronta con un conflitto che sta ridisegnando gli equilibri geopolitici, la capacità di de-codificare il mono-pensiero del presentismo ci potrebbe – finalmente - restituire la libertà di desiderare e prospettare strade diverse, di coltivare quel pensiero anticipatorio che Simone Weil esercitava nei giorni più difficili della storia europea. Le buone idee, le felici intuizioni possono avere lunga vita, riemergere ed ispirare le generazioni future, persino arrivare a contribuire, domani, alla realizzazione di un progetto che oggi non conosciamo, ma soltanto immaginiamo: il futuro.